Cominciò tutto con un maestro di danza che un giorno ci disse un (per lui) innocuo: -Ragazze, mettetevi a dieta in vista del saggio.
Avevo quasi diciassette anni e ignoravo quanto pesassi. Conoscevo solo le mie misure, in quanto mia madre le scriveva su un foglio ogni volta che doveva cucirmi un vestito: 89-63-92 centimetri.Tombola!
Quella sera tornai a casa e, in vista del saggio, mangiai orzo, mozzarella e pane di segale.
Questo fu il mio approccio al femminile mondo della dieta, fatto di conteggi, centimetri, specchi, taglie, consigli, rinunce, insipidità e ricerca di un intruglio segreto che, mangiato tutti i giorni dopo i pasti, fa perdere cinque chili in una settimana.
Cominciai a imitare le mie compagne di classe e sostituii gli snack al cioccolato con yogurt, mele e cracker integrali.
Un giorno mi tastai la pancia: non c’era più. Il mio ventre era scomparso, avevo solo pelle tesa fra le ossa delle anche.
Una persona, abbracciandomi, mi disse: -Non dimagrire più, per favore, stai scomparendo.
Qualcosa si spezzò dentro di me: mi sentii notata, accudita e presa a cuore. Non mi ero mai posta il problema di come fossi fisicamente, ero sempre stata l’amica simpatica di quella bella, la ragazza carina e divertente: quella normale.
Smisi di mangiare per il piacere di farlo e cominciai a nutrirmi controvoglia: mi sedevo a tavola come in una sfida contro la fame e contro gli sguardi dei miei familiari che cominciavano a capire. Volevo dimagrire non perché mi vedessi grassa, ma perché mi era piaciuto tanto quell’abbraccio preoccupato. Ne volevo altri. Volevo tanti abbracci, mi sarei accontentata di quelli preoccupati.
Per fortuna questa fase fu brevissima. La fame ebbe il sopravvento, ma non ero più in grado di gestirla: il mio cervello era rimasto segnato dai digiuni e temeva la carestia. Il senso di sazietà era ormai compromesso. Divenni bulimica a tavola e negli affetti. Non ero in grado di decidere quando smettere di mangiare o amare, di capire quando e quanto fossi sazia o amata.
Non mi sentivo mai soddisfatta, tutto mi sembrava sempre poco, ma non osavo chiedere un’altra polpetta o ancora un bacio. Provavo ad accontentarmi, a pormi un limite, ma poi mi alzavo la notte, tentando di riempire il vuoto dentro di me con biscotti e chilometri di parole pensate, scritte, piante e cantate. Parole in cui cercavo di spiegare a me stessa il significato dell’incolmabile buco che avevo dentro, attorno al quale ruotavano la mia stupida vita e la mia folle dieta.
Niente e nessuno è riuscito a cambiare questa situazione per due decenni: un bel lavoro, una psicologa costosa, il grande amore, la maternità.
Finché un giorno mi accorsi che l’eccessivo impegno adoperato nell’aiutare mio figlio a diventare “perfetto” come gli altri bambini, aveva provocato dei danni. Lo trascinavo da un parco a un’attività sportiva, da una terapia a una visita specialistica, da un pomeriggio di gioco con gli amici a una lunga passeggiata in bicicletta, correggendogli la camminata, la presa, le parole e persino il tono di voce.
Lo avevo destabilizzato: aveva paura di muoversi, di sbagliare, di deludermi. Mi fermai, lo osservai, ci osservai. Io avrei voluto solo renderlo libero di correre per il mondo e invece lo avevo chiuso in una prigione invisibile, tanto simile alla mia. Avevo vissuto la sua prematurità come l’ennesimo mio errore, tentando disperatamente di porvi rimedio.
Mi precipitai presso uno sportello aperto a sostegno delle famiglie, chiedendo aiuto per guarire Davide dalle sue ossessioni.
La dottoressa mi fece accomodare e mi chiese cosa avesse significato per me la nascita di mio figlio. Scoppiai a piangere, perché Davide non era perfetto ed io ce la stavo mettendo tutta per renderlo tale, ma ero una madre di m**da e avevo fatto un gran casino.
Mi rimproverò: -Non ti permettere mai più di sporcati con le parole.
Obbedii: effettivamente “pessima madre” suonava meglio. Ero io ad aver bisogno di aiuto, non mio figlio, a cui serviva solo tempo per crescere e stupirci.
Incontrai la psicologa per due anni, ogni quindici giorni. Non mi accorsi subito di essere guarita, perché la vita, con due figli piccoli, correva veloce e perché in fondo non mi resi neanche mai conto di essere malata. Ero semplicemente nata così: con un baco nel programma di svezzamento e un errore di sistema nel file “autostima”.
(continua…)
gRaffa
Raffaella Di Girolamo
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