L’ultima volta che ho vinto un’elezione è stato al liceo, rappresentante di istituto per acclamazione plebiscitaria biennio 83/84.
Da lì, ammesso che si possa considerare vittoria se il partito che hai votato raggiunge la maggioranza, quell’esaltante esperienza non si è mai più ripetuta.
Eccezion fatta per le mitiche europee del sorpasso in quello stesso 1984, complice probabilmente il favore della scia lunga del successo liceale, dopo non ho più potuto decretarmi vincitore.
Perdente di default, sconfitto per reiterata esperienza, minoritario per sorte avversa e destino infame.
Perfino le rare volte che la mia coalizione preferita è andata al governo è durata poco o niente e si è rivelata quasi subito una delusione, perché le istanze che credevo condivise come prioritarie sono state puntualmente tralasciate a vantaggio di urgenze sempre pressanti, rimaste immutate e irrisolte nei lustri.
Tanto da farmi porre seri dubbi sulla possibilità che fosse colpa mia, che fossi io a portare sfiga alla compagine che sostenevo e quindi, per la proprietà transitiva, a me stesso.
A seguito di tale considerazione che con il passare degli anni diventava sempre più stringente, sono arrivato a ipotizzare di votare il mio avversario più acerrimo, spesso già preferito nei sondaggi, così da recargli un magistrale colpo basso e condurlo nella sfiga di cui ero portatore.
Ma non ha funzionato. Un po’ perché nel segreto dell’urna, con la matitona nera che stingeva le mani e la scheda che puzzava di inchiostro, mi intoppavo nel mettere la croce sul simbolo odioso; e un po’ perché il meno peggio che di volta in volta in alternativa sceglievo turandomi il naso, mi lasciava sconfitto comunque. Insoddisfatto e a naso tappato.
Neanche la soluzione che adottai successivamente si rivelò soddisfacente, la fuga creativa dagli opposti schieramenti: che significava andarsi a scegliere un partitello scherzoso che si e no avrebbe raggiunto la soglia minima. Infatti, anche se fossi riuscito a posizionare mezzo parlamentare, come riserva risultante casomai un eletto rinunciasse o trapassasse a miglior condizione, il voto avrebbe contato poco o niente nella strabordante maggioranza contraria, se non l’illusione di aver detto la propria.
E’ così che sono giunto alla conclusione che forse individuare un nemico, invece che un semplice avversario, sarebbe potuto essere una soluzione. Dover combattere uno che sapevo farabutto, bugiardo e opportunista, che ti viene da scendere in piazza a lanciargli monetine, a farci riti wodoo disegnando sul suo santino appeso al muro un tirassegno per tirargli freccette avvelenate, mi avrebbe dato una ragione di voto. Perché almeno così più che individuare un candidato in cui credere convintamente restasse la consolazione di non mandare sullo scranno chi non sarebbe mai dovuto finirci.
E mettersi a posto la coscienza nel segreto dell’urna, che mai col nemico, per sempre, senza se e senza ma.
Se non fosse che l’esperienza mi ha poi insegnato che più l’avversario è impresentabile e invotabile, più lo consideri nemico invece che semplice candidato dalle idee diverse e più lui risulta vincente, quasi un messia agli occhi della maggioranza.
Più mi è capitato di osteggiare con tutte le mie forze candidati impresentabili, più ho lanciato freccette wodoo sul suo santino appeso al muro, più questi vinceva, prosperava e se la godeva, e di misura.
Più raccontava balle, più piaceva alla gente.
Cominciava così nel tempo, in questi 35 anni di cocenti sconfitte, a formarsi nella mia coscienza la convinzione che doveva esserci in me e nelle mie prerogative qualcosa che non andava. Che probabilmente erano sbagliate le premesse. Che forse parteggiare per una forza politica come fosse la squadra del cuore nel campionato non fosse la strada da percorrere. Che pretendere un candidato che rispecchi appieno i miei desideri e le mie priorità sia un’illusione, un’utopia irrealizzabile quanto i successi dei tempi del liceo.
Che, preso atto delle avvilenti facce che passa il convento, al netto dei verbi condizionali dell’irrealtà che ogni scelta sottende, quei “sarebbe dovuto, potuto e voluto” che mai si appalesano ad un elettore minoritario per suo stesso destino, non resta che farsi due conti sull’effettuale. E più che il meno peggio, più che il nemico bersaglio di freccette, più che scongiurare scenari apocalittici che non siamo in grado nemmeno di immaginare, più che la fuga creativa dalla trappola delle opposte insoddisfacenti ricette, non resta che la banale ragione a distinguere un immediato presente accettabile da uno meno sopportabile.
Lo so che non è il massimo come prospettiva.
Ma è pur vero che avvicinarsi alle ennesime elezioni che promettono solo il solito governo di scopo – come se un governo vero uno scopo non ce l’abbia-, continuando a sognare quell’unico successo dei tempi del liceo, è altrettanto frustrante.
E lascia il campo libero a chi prefigura non tanto un futuro apocalittico, quanto già da subito un presente di ingiustizie immediate, concrete e micragnose.
Antonio Pizzola
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