Sulmona e Casablanca non sono mai state così vicine. A unirle è Latifa Benharara, nata in Valle Peligna da genitori emigrati proprio dal Marocco. Due mondi distanti. Sconosciuti tra di loro. La Maiella e la sua neve da un lato. Il Sahara che guarda all’Atlantico dall’altra. Universi già uniti, sotto un vessillo rosso con un pentagramma verde che lo scorso sabato sventolava su piazza Garibaldi con un sottofondo di clacson. E’ il calcio, signori. Quello che rinforza i legami tra la comunità. Sono i Mondiali, quelli che scandiscono la storia, le epoche. Che raccontano molto più di ventidue persone che rincorrono un pallone.
Latifa i suoi due universi li ha già visti riunire così. Con i Leoni dell’Atlante che hanno ribaltato la storia coloniale, che li ha visti per anni vittime e non vincitori. Belgio, Spagna e Portogallo. Tre Paesi che tra il Seicento e la metà del Secolo Breve dettavano legge, la propria, in diverse latitudini del globo terracqueo.
Il Marocco questo sentimento nazionale lo ha ributtato in campo, sovvertendo storia e pronostici. Prima nazionale africana a raggiungere una semifinale della Coppa del Mondo. Tanto basterebbe per entrare negli annali. Ora c’è la Francia campione del mondo in carica. Al talento, Hakimi &Co. potranno contrapporre la spinta di un intero continente che si mescola al tifo del mondo arabo.
Ma la nazionale marocchina la sua impresa sociale l’ha già fatta, come spiega Latifa, che appena rientrata a casa ieri sera ha trovato la madre concentrata a guardare la semifinale tra Argentina e Croazia. “Una scena insolita – ci spiega Latifa -, poiché a mamma non interessa particolarmente il calcio”. “Guarda che l’Argentina è forte. Se andiamo in finale sarà difficile vincere”, replica con tutta naturalezza la madre alla perplessità della figlia.
E’ il calcio, signori. Lo stesso che ha riunito le circa trenta famiglie della comunità marocchina peligna nel seguire la scalata verso il tetto del mondo della propria nazionale. “Negli anni Novanta qui a Sulmona c’eravamo solo noi – sottolinea Latifa -. Ora ci sono almeno cinque famiglie. Una dozzina a Pratola Peligna, e qualche altro nucleo lo troviamo a Raiano. Solitamente siamo in contatto. Ci scambiamo gli auguri per le feste musulmane, ma finisce lì. Ora, invece, con i Mondiali sta accadendo qualcosa di mai visto. Siamo ancora più uniti. Ci ritroviamo per seguire le partite”.
Una comunità forte, fiera, e che in Abruzzo si è fortemente radicata. Soprattutto nella Marsica, con Avezzano che ha anche una parte del proprio cimitero riservata ai fedeli musulmani, con riti funerari e sepolture previste secondo la tradizione islamica.
“Questa nazionale ha portato in campo una connessione con la propria fede – aggiunge Latifa -. Una spiritualità che va oltre gli schemi comuni. E poi c’è la spontaneità dei festeggiamenti. Non si sono visti calciatori che corrono ad abbracciare le proprie fidanzate, bensì dei professionisti che hanno subito cercato le proprie madri. Per noi sono il vero punto di riferimento. Donne umili, semplici, pronte a sacrificarsi e soffrire per i figli”.
C’è poi la questione, tanto discussa, sui divieti che il Qatar ha imposto durante la manifestazione. O meglio, divieti che da sempre esistono nel Paese qatariota e sui quali non sono state fatte eccezioni.
“Bisogna capire che il Qatar è un Paese fortemente conservatore – tiene a spiegarci Latifa -, non creerebbe delle crepe alle proprie tradizioni e alla propria cultura per un solo mese di eventi. Se ciò accadesse si avrebbero delle gravi conseguenze. Ho parlato con tifosi inglesi e mi hanno detto che si sono trovati benissimo. Il fatto che negli stadi non si venda l’alcol ha creato un ambiente pulito per le famiglie. Sulle imposizioni riguardo il vestiario, invece, dico solo che il velo non è simbolo di oppressione. Invito tutti ad andare oltre le etichette errate della propaganda mediatica, e di visitare questi posti per capire gli usi e i costumi arabi”.
Latifa i suoi due mondi li riunirà pedalando. Riscoprendo la sua terra in sella alla propria bicicletta il prossimo giugno. Lo farà in un lungo tragitto denominato “From Maiella to Sahara Bikelife Experience”. Quattromila chilometri da coprire in quaranta giorni. Una media di cento chilometri ogni 24 ore su strade secondarie, polverose. Il tragitto è ancora tutto da scoprire. La motivazione, quella no.
“Stiamo concludendo la mappa per le ultime tappe – ci spiega -. Fino al confine della Spagna è tutto già pronto. Essendo legata alla figura di Pietro da Morrone farò necessariamente una tappa alla basilica di Collemaggio, all’Aquila. Poi farò un passaggio per Rieti e in Toscana, con un gruppo di ciclisti che pedalano su bici storiche di cui faccio parte”.
Ci sarà spazio per un passaggio in Costa Azzurra, fino a Valencia e Malaga. Da qui, poi, Latifa dovrà necessariamente imbarcarsi per raggiungere le coste africane. Un viaggio che voleva inizialmente intraprendere da sola, ma che si è man mano ampliato fino ad arrivare ad essere un vero e proprio evento. “Tutto è fatto per passione – spiega Latifa -. Non guadagnerò nemmeno un euro. Non voglio soldi, né visibilità. Anzi, verrà aperta una campagna di crowdfunding per sostenere il futuro del ciclismo. Voglio che sia uno sport sempre più accogliente. Che metta al centro la donna, che si apra mentalmente. Che investa su bambine e bambini per avere nuovi Bartali, Coppi e Pantani. Voglio il meglio per questo perché la bici unisce i popoli. Sulle strade incontri sempre qualcuno. Uno sconosciuto che può diventare tuo amico”.
Un po’ come il calcio, signori.
Valerio Di Fonso
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