La candidatura del presidente della giunta regionale Luciano D’Alfonso al Senato impone una riflessione. Politica e morale. Politica, perché la sua candidatura e la sicura elezione a Palazzo Madama apriranno un altro periodo di interrogativi nel centro sinistra abruzzese e, a cascata, nell’amministrazione attiva della Regione. Le tante anime del Pd si troveranno legittimate ad avviare contese, regolamenti di conti e “chiarimenti” dopo anni di forzati silenzi che hanno costretto gli amministratori del centro sinistra sul territorio a fare da parafulmine alla decisioni della giunta regionale. Lo sanno i sindaci e gli assessori stretti da un lato dai cittadini che richiedono più servizi e attenzioni e dall’altro dalle “dolorose decisioni” di un governo regionale che in molti casi ha evitato il confronto e inflitto ai territori pesanti umiliazioni.
La riflessione politica sul dopo D’Alfonso naturalmente non può dimenticare quello che ha rappresentato il D’Alfonso governatore in poco meno di quattro anni di governo regionale. E’ prematuro fare bilanci, ma certo è che “big Luciano” ha mostrato evidenti i segni di uno scollamento tra il politico e l’amministratore. I problemi ereditati dalla precedente giunta rimangono tutti sul campo, anzi aggravati dall’ulteriore decorso del tempo. Non c’è stata, come del resto lui stesso aveva annunciato e promesso, quella nuova stagione che avrebbe dovuto portare all’abbandono di una Regione autoreferenziale, pronta ad assolversi e senza alcuna memoria amministrativa.
Ed invece a 42 mesi dalla sua elezione D’Alfonso riconsegna una Regione in ritardo nei pagamenti con i privati, con un bilancio ingessato e senza risorse sotto scacco della Corte dei Conti in virtù dei rendiconti non approvati, ultima tra le regioni italiane ad aver speso fondi europei, che non ha figure apicali nelle strutture amministrative e che continua ad assolversi vagheggiando le magnifiche sorti e progressive.
Ma la riflessione sulla sua candidatura va fatta anche sotto il profilo etico. Nel senso che D’Alfonso non ha esitato a rompere, per un’ambizione politica tutta personale, quel patto etico e politico che in campagna elettorale ogni candidato fa con gli elettori, per poi trasformarsi nel vincolo di governo tra amministratore e amministrato. Non è la prima volta che lo fa, già in passato aveva lasciato il consiglio regionale per fare il presidente della Provincia, ma questa volta l’abbandono ha un peso politico più consistente perché nessun lavoro avviato è stato portato a termine.
Da qui quel venir meno della promessa fatta nel maggio 2014 che dimostra ancora una volta come le istituzioni siano chiamate a svolgere il ruolo di taxi politico per le ambizioni dei singoli. Del resto non è un caso se Luciano D’Alfonso è l’unico presidente di Regione che si presenta alle elezioni politiche del 4 marzo; a dire il vero c’è anche Debora Serracchiani (presidente Friuli Venezia Giulia) ma lei è a fine mandato e la legislatura sarebbe comunque scaduta a maggio. Un dato politico ben diverso da quello di D’Alfonso. E non è certo un punto a favore del presidente la stravagante affermazione che la sua permanenza a Roma sarebbe comunque legata solo ad un ruolo di governo di primo piano. Anzi, sono parole che danno la misura dell’idea che il D’Alfonso politico ha delle istituzioni.
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