Sotto il cavolo a merenda

Se solo li avessimo trovati davvero sotto un cavolo, durante una tranquilla passeggiata nell’orto, ora sarebbe tutto più semplice.
Non avremmo così tanto bisogno dei loro occhi, per ritrovarci quando ci sentiamo persi o della loro voce che ci chiama, per ricordarci chi siamo.
Se li avessimo trovati per sbaglio fra bietola e cicoria e non -come invece è stato- voluti con tutte le nostre forze e amati ancor prima del primo istante, da quando erano solo un desiderio, ora i nostri sonni sarebbero più tranquilli.
Invece ce li siamo andati a prendere noi, scegliendo proprio loro fra tanti e fatti nostri per sempre.
Ma, se ne avessero avuto la facoltà, ci avrebbero a loro volta scelti? Avrebbero acconsentito a seguirci, a venire con noi nelle nostre vite incasinate, ad assumere i nostri tratti somatici e a sopportare i nostri brutti caratteri?
Probabilmente sì, perché quel giorno eravamo tanto-tanto credibili così pieni di amore. Li abbiamo adagiati nelle culle sicure marcate CE e, per un po’, li abbiamo illusi che tutto fosse perfetto e semplice: -Se hai fame ti allatto, se te la fai sotto il pannolino assorbe tutto, se ti fai male un bacio guarisce la bua e avrai sempre ai tuoi piedi uno stuolo di parenti adoranti, desiderosi di esaudire ogni tuo desiderio.
Crescendo, si sono invece accorti che le cose non stavano esattamente così, hanno capito che noi genitori non possiamo tutto e siamo fallibili: ascoltiamo musica antica, cuciniamo cibi precotti, siamo spesso di cattivo umore e, anche se vorremmo, non riusciamo sempre evitare che cadano, che si facciano male, che soffrano e che il bambino ai giardini si rifiuti di giocare con loro.
Intanto però, fra tanti cavoli, tonfi e delusioni, sono diventati grandi, forti e belli, proprio come recitava lo spot degli omogeneizzati che ci sputavano in faccia dal seggiolone.
Ora è un po’ più difficile per noi interpretare i loro sguardi, cercando di capire se va tutto bene, se stanno bene e se ci vogliono bene.
Non piangono più urlando a squarciagola per richiamare la nostra attenzione, sicuri che correremo da loro con un giochino, uno sciroppo, un biberon o un libro di favole in mano.
I pianti sono stati sostituiti da muti silenzi, che spesso ci scuotono più di un vagito in piena notte, durante la fase REM del sonno, a interruzione di un bel sogno che sarebbe stato bello finire.
Non bastiamo più noi a scacciare l’uomo nero, con un bacio sulla fronte e una canzoncina sussurrata nell’orecchio. Non è più sufficiente un abbraccio per convincerli che tutto andrà bene, che niente di male potrà mai accadere. È bastato uscirne fuori per un momento, da quell’abbraccio, per capirlo.
Fuori da lì il mondo è duro: si cade, si perde, si piange, si fatica tanto per ottenere le cose e a noi genitori tocca spesso essere spettatori impotenti di tutto questo: noiosi dispensatori di banali consigli.
Se li avessimo trovati sotto un cavolo a merenda o se almeno ce li avesse recapitati una itinerante cicogna, ora sarebbe tutto più semplice.

Se solo potessimo rimetterli in quell’antico abbraccio, dove era presente tutto il necessario, dentro il quale non poteva accadere niente di male e all’uomo nero era vietato l’accesso…ma purtroppo non è possibile.
Quell’abbraccio esisterà per sempre, ma sarà solo una piccola parentesi di serenità nel gran casino che è la vita: una stanza sempre pronta ad accoglierli con i loro silenzi, le cuffie alle orecchie e un cantante che parla in loro vece, perché lui le cose sa dirle meglio e pure in musica.
Una stanza dove è possibile stare in mutande, mangiare Nutella con le dita, fregarsene di tutto e dormire fino a mezzogiorno.
Fuori, intanto, la vita aspetta senza sconti: è bene essere seri, mangiare bio, rispettare le regole, svegliarsi alle sette in punto e pure di buon umore. L’uomo nero è stato sconfitto, non vive più sotto il letto, anche se qualche volta fa ancora paura, come tutte le cose che non si possono vedere e controllare, quelle che, dal nulla, all’improvviso potrebbero arrivare a rovinare tutto.

gRaffa
Raffaella Di Girolamo

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