Quando finalmente il Virus sparì la città era deserta.
Ratti, immondizia e barboni i padroni della strada, indifferenti alla paura del contagio perché inconsapevoli, o soltanto senza niente da perdere: la morte erano abituati a rischiarla ogni mattina svegliandosi e ogni notte addormentandosi. Eravamo stati un tempo infinito volontariamente reclusi ai domiciliari, con la dispensa ricolma di merce che arrivava imbustata dal distributore: la scaricava un drone davanti la buca sul portone, che fino ad allora era stata solo la porticina dei gatti.
Già i gatti, come i cani, i pesci rossi e i cardellini costretti ad unica compagnia di quella reclusione coatta, adattati al bisognino nella vaschetta ripulita a bollire nell’acool, che si lasciava calare fuori casa, dove nessun netturbino l’avrebbe mai raccolta. Almeno fin quando ci comunicarono del del primo cagnolino positivo e cominciammo a vederli lasciati a zonzo con latrati strazianti, colonna sonora del vuoto fuori.
Avevamo guardato dietro i vetri la neve, la pioggia e il sole, un’emergenza dietro l’altra come l’anticipava il meteo, e poi le rondini arrivare come ad ogni primavera, invidiosi della loro voglia di cantare, ovattata dagli infissi a tenuta stagna. Mentre dal cellulare l’aggiornamento delle vittime: irresponsabili, – commentavamo ciascuno davanti il proprio specchio-, evidentemente hanno violato il protocollo. E gli sta bene.
I disubbidienti erano i nemici, come i qualunquisti in tempi di credo unico: ci spiavamo ai monitor le vite per verificarne le disubbidienze, la casa sigillata, il cibo per posta, la reclusione senza eccezioni. E intasavamo il numero verde delle delazioni, ho visto tizio aprire la finestra, caio che fa rientrare il cane che piange, sempronio in via vattelappesca uscito a riparare l’antenna.
Gli altri, nessuno escluso, erano solo potenziali portatori, monatti senza campanella fuori dal cellophane che proteggeva il nido. I conviventi, costretti negli stessi metriquadri a sputarsi contro in breve frustrazioni, impotenza e tristezze, prima di uccidersi si separavano in cellule autosufficienti via via più prossime all’unità: a sopportare solo se stessi era già un’impresa.
I più risoluti avevano inventato modi per uccidere il tempo, sale hobby improvvisate per foto social di bricolage da tanti I like, palestre domestiche superattrezzate per selfie muscolari, macchine self-goder a pedali in kit per una chat e via, trenini di discosamba solitari.
L’importante era Evitare il Contatto, stessa etimologia di Contagio, guarda caso, da tangere in latino toccarsi.
Già, toccarsi, da quanto tempo era solo un verbo riflessivo dietro le persiane chiuse che, per quanto riflessivo, aveva smesso da tanto di farci riflettere. L’Amore, quell’avanzo di ormoni che ancora resistevano all’avvilimento , come ogni altro sentimento era trasformato in bit e in pixel da scambiarsi sul monitor per mantenere viva un’illusione senza rischio, o un ricordo.
Bambole e bamboli gonfiabili andavano a ruba, per placare nei nostri stessi umori l’ansia di fare fuori da se almeno una cosa, poco importa con cosa. Le droghe spadroneggiavano, scappare altrove era sempre la soluzione più alla portata: quelle illegali le recapitavano piccioni elettrici immuni al contagio mentre quelle lecite le vendeva il ministero sul portale del contagio, ansiolitici, antidepressivi e instupidenti, meglio zombie rincoglioniti che morti di paura.
Poi, finalmente, quella mattina, quando il virus sparì, le case si schiusero ad un’improvvisata primavera e come neonate lumache scivolammo nella bava fuori dal nostro guscio. Pallidi e instupiditi ci guardammo muti, vicino con vicino, prossimo per prossimo e ci vedemmo senza pixel a mediare, finalmente allo specchio della vita che non avevamo vissuto per il rischio di perderla.
Ma fu un attimo, un trillo. Il whats’s up del ministero annunciava l’emergenza estate : il virus col caldo era mutato in zanzara-tigre, vorace e letale.
Fine della ricreazione, si rientrava a casa.
Antonio Pizzola
Ad un virus si sopravvive…alle psicostupidaggini: NO.
Publio, a distanza di un anno e mezzo tante di queste stupidaggini sono diventate quotidianità. Pensa, se avessi espresso le tue, oggi avremmo potuto fare una gara