Il processo è da rifare, anzi tutte le indagini, semmai i magistrati di Teramo decidessero di riaprire un’inchiesta che, d’altro canto, è stata già in parte smontata dalla Cassazione che nel 2016 aveva annullato le ordinanze di custodia cautelare con le quali finirono agli arresti quattro imprenditori, tra cui i sulmonesi Francesco Salvatore e Panfilo Di Meo.
Il tribunale dell’Aquila ha accolto infatti ieri l’eccezione di incompetenza territoriale sollevata dai difensori degli imputati, Alessandro Margiotta e Alberto Paolini, ammettendo che la procura dell’Aquila non aveva alcun titolo ad indagare su un presunto reato che si sarebbe invece compiuto a Teramo, dove cioè vennero stretti i rapporti tra le società coinvolte nell’inchiesta Social Dumping, quella cioè che ipotizzava lo sfruttamento di operai rumeni nella ricostruzione post-sisma.
In pratica se la procura di Teramo lo riterrà opportuno, dovrà procedere a nuove indagini e imbastire un processo che, già da ora, si annuncia prescritto. Ma al di là dei tempi, è la sostanza dell’ipotesi di reato che non sembra reggere: “E’ assente ogni elemento riconducibile a violenza poiché non rilevabile dagli atti – scriveva la Cassazione smontando così la teoria dello sfruttamento – né il Collegio ha svolto esplicite ed adeguate argomentazioni sull’accettazione coatta di condizioni di lavoro deteriori da parte dei dipendenti”.
La parte del processo per la quale Salvatore e Di Meo (e con loro gli aquilani Massimo Di Donato e Giancarlo Di Bartolomeo e il pratolano Ezio Liberatore, quest’ultimo solo per i risvolti fiscali) erano stati rinviati a giudizio, riguardava in particolare i rapporti di lavoro su alcuni cantieri all’Aquila, Bominaco, Vittorito e Pratola Peligna. Secondo la procura del capoluogo gli imputati (a cui era stata contestata anche l’associazione a delinquere) avevano reclutato manodopera rumena sfruttandola, attraverso minacce e intimidazioni, pagando una giornata lavorativa di dieci ore 50 euro e costringendo gli operai a vivere in tuguri e a non potersi ammalare per evitare di perdere lo stipendio.
Accuse che non sono state provate, ha detto la Cassazione, e che, spiegano gli imputati, non trovano alcun riscontro neanche documentale, oltre che testimoniale.
L’inchiesta Social Dumping, insomma, si è rivelata una bolla di sapone, con la quale però “sono stati macchiati da accuse infamanti” imprenditori molto in vista, con conseguenze anche lavorative (tra cui la sospensione dell’affidamento dei lavori per le scuole Serafini di Sulmona) ed economiche, oltre che umane: per quelle accuse gli imputati si fecero quattordici giorni di galera e un mese e mezzo di arresti domiciliari.
Qualcuno, ora, dovrà pagare i danni.
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