La luna è alta e piena, Agata e Nicola sono in ospedale già da un pezzo. Nessuna visita o emergenza per loro. In ospedale sono andati a cercare un tetto sotto il quale passare la notte, loro così diversi eppure con una storia che inizia allo stesso modo, entrambi cacciati fuori di casa dai genitori.
Guardano la televisione in sala d’aspetto, un vecchio film di Tomas Milian, l’unico che riesce a strappare un sorriso. Un modo per ingannare il tempo prima di trovare ognuno, separatamente, il proprio personale ricovero: Agata sulla barella del pronto soccorso, Nicola al terzo piano dell’ala vecchia, quella ormai svuotata e inagibile, “dove è più tranquillo” dice.
“Agata Nadia”, precisa il suo secondo nome, ha 54 anni, è originaria di Rocca Pia ma è cresciuta a Corfinio, ha tre figli ed un nipotino, aveva un marito, ma niente è andato come doveva, faceva la parrucchiera e ha chiuso il suo negozio, qualcosa è andato storto e la vita ha preso un’altra piega, inaspettata. Vive della sua pensione di invalidità, circa 290 euro concessi per la sua patologia, sindrome bipolare, per questo va in ospedale ricette alla mano, in attesa di ottenere i farmaci che le spettano.
A mezza bocca racconta le sue vicende Agata, serena e persino con un entusiasmo non comune visto la situazione che sta vivendo dall’ottobre scorso “quando – racconta – i miei genitori mi hanno cacciata fuori per le preghiere” quelle che passavano su Radio Maria durante la notte. “Dicevano che stavo augurando loro la morte” e sorride a sentirsi investita di tanto potere. “Eppure sono ringiovanita da quando sto fuori casa” si affretta ad aggiungere evidenziando la vita senza pensieri, senza sensi di colpa o errori del passato da farsi rinfacciare. L’assenza di tetto sembra appagare il desiderio di una “libertà” che augura a tutti. Anche se una casa Agata la vorrebbe, l’ha chiesta informalmente al sindaco Massimo Colangelo, ma per lei ancora nulla. “Tornerò a chiedere” promette.
Sugli sgabbelli della sala d’aspetto ha affilato una serie di buste: “Roba che ho trovato per strada – spiega – vecchi maglioni, giornali. Tutto può tornare utile”. Il suo diario, però, ce l’ha gelosamente conservato nella borsa, un pezzo della vita che fu e che lei continua a vivere in qualche modo: le foto dei figli e del fratello “che è il sole – dice – e io la tempesta”, appunti confusi, date e frasi mai finite.
Nicola è diverso, più timido e introverso: a 45 anni si porta sulla pelle una vita di stenti e fatica, di abbandono e dolore. Che quell’età così giovane, alla fine, la tradisce solo il chiarore delle labbra. Arriva dalla Toscana, così dice, cercando di mettere in ordine i tasselli della sua vita. Lui è stato cacciato di casa quando perse il lavoro, arrivando dopo una serie di vicende in Abruzzo, nella Marsica, dove cominciò a lavorare come raccoglitore di ortaggi: 2.50 euro all’ora, quasi niente. Ma poi neanche più quello, perchè gli “extracomunitari hanno monopolizzato il mercato”.
Quindi il pellegrinaggio in giro per l’Italia, fino a Sulmona dove è approdato non ricorda neanche lui quando e perchè. Da un mese dorme tutte le sere in ospedale, con lui solo un vecchio zainetto con il ricambio degli abiti. L’estate, invece, sceglie la stazione per dormire. “Perchè la cosa più dura di questa vita – dice – è l’inverno”. Lui però un lavoro lo vorrebbe, “uno qualsiasi” confessa, anche se già sa che non lo avrà così facilmente, ora che nei campi non ce la fa più a starci. Nella mano tiene un telefonino vecchio modello, che guarda in modo complusivo, nella speranza di uno squillo che non arriva mai: “La mia famiglia non la sento da anni – racconta – con i miei fratelli ho perso i contatti da quando sono andato via, di mia madre non so neanche più il numero”.
La sua vita ormai è scandita da una routine senza meta: sveglia alle 5,30, una sciacquata al viso nel bagno dell’ospedale, poi in giro a fare l’elemosina, il pasto alla Caritas e di nuovo in ospedale, “l’hotel a cinque stelle”, dove poter vedere un film, perdersi in un sorriso, dormire al caldo.
“Nell’hotel del Santissima Annunziata” risiede ormai in modo stabile anche Innocenzo, che questa sera però non c’è. La luna lo ha forse trattenuto. Dei senza tetto, lui, è il più “fortunato”: dorme in uno spazio ricavato sopra la cappella dell’ospedale, tre metri quadrati con vista sull’altare, un materassino e una sedia a far da comodino. Agata è un po’ invidiosa di quella sistemazione: “Voglio anche io un posto tutto per me – commenta – anche se devo dire che la barella del pronto soccorso è comoda”.
Una situazione preoccupante per Edoardo Facchini del Tribunale per i diritti del malato, perchè da un lato ci sarebbero le condizioni igienico sanitarie da preservare, dall’altro tre persone da tutelare. Facchini chiama in causa la direzione Asl ed il sindaco in una Sulmona che nell’ultimo anno ha registrato un forte aumento di bisognosi, ingabbiati “nel tunnel della povertà” secondo gli ultimi dati della Caritas.
Che a vederli quei numeri, per quanto in crescita e preoccupanti, non rendono davvero il dramma della vita reale. Quella fatta di stenti e ricoveri, di vite sospese tra un corridoio e una barella.
Come mai loro non possono trovare un letto in qualche albergo come avviene per altri?