Se un giorno un leader

Da ragazzino avevo una banda.

Le bande erano raggruppamenti di smorfiosi brufolosi che condividevano un luogo di incontro, un muretto, una scaletta, un campetto e con questi si identificavano.

Ora, accadeva che in una piccola realtà di provincia come la mia, muretti e scalette fossero tanti, ben più dei quartieri in cui si era soliti suddividere la cittadina e i ragazzini, negli anni del boom di natalità, altrettanto numerosi. Cosicchè i confini fra bande avversarie erano labili e l’appartenenza ad una o all’altra esiziale nella formazione di pubertà periferica.

Lo scontro con le bande limitrofe inevitabile, come dimostra la storia delle tribù umane fin dagli albori. Il tempo fuori casa, che coincideva con quello che avanzava dalla scuola fino alla puntata di Happy Days delle ore 20,00, era scandito dalle spiate fra bande avversarie e dall’organizzazione dell’incursione che si doveva ai rivali, rei di aver lanciato la sfida stalkerando uno dei propri, in un temerario passaggio nel territorio nemico.

Il capo della nostra banda, quella di via Patini, era segreto. Lo conoscevano solo i suoi portavoce presso il muretto, cioè io e il fratellino del capo (per ovvi motivi). La nostra pecularità, che ci proiettava già nel futuro delle quote rosa, era una ragazzina, solo un po’ più grande di noi e con prerogative da leader.

Nonostante questo, quando si trattò di decidere sulla strategia di attacco alla banda di via Freda, quella che per capirci aveva come sede il cantiere della scuola omonima fermo per anni fra forati e cementi armati, ci fu bisogno di riunire l’assemblea plenaria.

 

Cosa ce ne saremmo fatti di una capa femminuccia se si trattava di armarsi di sassaiole e bastoni per vendicare sul campo nemico l’oltraggio ad uno dei nostri? Il comitato di guerra fu unanime. Toccava nominare un generale pro tempore, come facevano i Romani ai tempi della repubblica, condottiero alieno alla squadra che, risolta la tenzone, sarebbe dovuto tornare al suo posto come un qualsiasi Cincinnato alla sua terra.

 

In certi casi, condividemmo senza dircelo, la partigianeria era inopportuna e fuori luogo. La critica al proprio stesso leader necessaria, non perché si volessero mettere in discussione le scelte adottate nel momento dell’elezione, no, nessun passo indietro. Ma l’obiettivo era vincere, non tifare per partito preso.

La capa un po’ ci era rimasta male, non le andava giù che avessimo riconosciuto la sua inadeguatezza e fu sul punto di dimettersi. Toccò a me, prima che al fratellino – troppo ricattabile a casa per opporsi alla sorella maggiore-, tentare la mediazione.

Impostai tutta la mia arringa su Fabio Massimo Cunctator, il Temporeggiatore, eroe scolastico che il senato della repubblica romana scelse per fermare Pirro e i suoi temibili elefanti.

Ottenni il risultato insperato, con riconoscimento da tutta la banda, talmente plebiscitario da essere candidato mio malgrado a generale della spedizione punitiva nel cantiere di via Freda.

 

Ma fui costretto a declinare l’invito. Le mie doti, rappresentai all’assemblea di guerra, erano di mediazione, l’attacco frontale non faceva per me e per la mia stazza da primo della classe. Ci voleva uno stratega della tenzone, non un mediatore.

Proposi Gianni, compagno di banco dei Cappuccini, estraneo al nostro muretto, ma ideale sia per le indubbie capacità militari (era un abile picchiatore e disegnava benissimo carri armati e portaerei) sia per l’alleanza che poteva garantirci, qualora si fosse messa male, con quelli del Katanga, temibili avversari di qualunque banda peligna.

Vincemmo, dopo nemmeno mezz’ora di fitta sassaiola i ragazzini di via Freda uscirono dai muri in laterizio issando una t-shirt bianca.

Quel giorno mi fu chiaro un principio che mi accompagnò tutta la vita, perfino nelle riunioni di condominio.

Quando l’obiettivo è vincere non ha senso dimostrare a se stessi e agli avversari che il capo che si è scelti ha sempre ragione, giustificando ogni sua decisione, comprese le palesi cazzate come se fosse il mister della squadra del cuore. Al contrario bisogna stanarlo, attaccandolo alle caviglie, in ogni momento, ad ogni tentennamento, perché realizzi quanto ha promesso, senza uscire mai dal seminato, che sono i principi irrinunciabili.

Tenendo sempre dinanzi a sé l’obiettivo che è tenersi solo i migliori, scartando i passi falsi con la tensione continua a migliorarci la vita.

Gianni, a fine battaglia, tornò fra i suoi amici dei Cappuccini. Per ringraziamento sacrificammo una lucertola dalla coda grassa e la crocifiggemmo sul muretto a futura memoria, sotto l’iscrizione dedicata al nostro generale per una sera, con la data a lettere romane incise nell’intonaco scrostato.

Proprio nel giorno della puntata di Happy Days in cui Rickie tirò  finalmente fuori le palle e, pur ribadendogli l’amicizia fuori discussione, dichiarò a Fonzie che con le gemelle russe, ebbene si, aveva sbagliato.

Fonzie fece ehi e, schernendosi maldestramente, lo abbracciò dinanzi la Loggia del Leopardo.

 

 

Antonio Pizzola

 

 

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