Scelte di vite
A Corfinio sulla Tiburtina, quando imbocchiamo la strada per Vittorito questa pare inabissarsi. Dove ci porterà? Attorno l’aria è ferma. Il sole alto in un cielo senza nuvole irradia la selva alla quale ogni tanto è strappato un campo. Attraversiamo il fiume Aterno che è un po’ la linea Maginot di questo pezzo di valle. Oltre è uno sfilare di terre coltivate a vite. Vittorito paese dell’olio e del vino: a monte sono gli ulivi a modellare il paesaggio, ma qui a valle i protagonisti sono i filari. Che poi l’uva, la vite, il vino sono colture inscindibili dalla storia di questi luoghi. Già in epoca pre-romana, ben prima della nascita di Cristo, in Valle Peligna insieme a grano, olio e frutta, si producevano uva e vino. Ne abbiamo testimonianze grazie a Publio Ovidio Nasone, Marco Valerio Marziale e Plinio Secondo il Vecchio che esaltavano le qualità del vino locale nei loro scritti. All’epoca si coltivava col metodo della vite maritata, perché la pianta cresceva aggrappata ad un albero da frutta in un primordiale esempio di permacultura. Pare inoltre che la Valle Peligna sia la patria del vitigno del Montepulciano d’Abruzzo.
A Vittorito in particolare sono stati ritrovati dolii in terracotta, i contenitori usati nel periodo romano per il trasporto o la conservazione dei prodotti agricoli, come anche i resti di ville rustiche provviste di stalle e vani per la lavorazione e la conservazione di vino e olio. Pare addirittura che durante il dopoguerra nei lavori di sistemazione delle vigne furono ritrovati dei palmenti, le vasche in pietra utilizzate dai romani per la fermentazione del mosto direttamente nei campi, ma vennero poi ricoperti e di questi vi è oggi traccia solo nei racconti dei contadini più anziani.
Vittorito insomma è il paese del vino. Lo è almeno da duemila anni e allora capiamo che ci stiamo immergendo nel passato, nel ventre vivo della storia, nel cuore di una cultura enogastronomica. Mentre altrove l’industria, l’agricoltura meccanizzata, la fillossera – una malattia molto aggressiva che ha distrutto i vitigni autoctoni – hanno disincentivato la coltura della vite, qui la posizione leggermente defilata che isola il paese e in particolare la predisposizione dei terreni a clima e sole favorevoli ha fatto sì che una parte di questa economia – prima predominante in Valle Peligna – sopravvivesse.
Mariapaola Di Cato, quarant’anni e un sorriso che pare non abbandonarla mai, ci accompagna fra i suoi campi. Vignaiola, proprietaria dell’azienda agricola Di Cato, è una che il vino ce l’ha nel sangue. L’ettaro di vigna col quale ha intrapreso l’attività agricola, lo ha ereditato dal bisnonno. “Se nasci e cresci a Vittorito hai a che fare con il mondo del vino sin da bambina – racconta Mariapaola -. Io saltavo la scuola per andare a raccogliere l’uva nella vigna di mio nonno e in quella dei vicini di casa. Fino a trent’anni fa qui tutti facevano vino. Io ho avuto la fortuna di avere mio padre, Francesco, che nonostante facesse un altro lavoro non ha mai abbandonato la campagna e una volta andato in pensione ha recuperato le terre di famiglia ed è tornato a fare vino proprio come faceva il mio bisnonno”.
Dopo aver piantato, tra il 2016 e il 2020, vitigni di Malvasia, Aleatico e Passerina, gli ettari coltivati sono diventati due, mentre il resto della produzione è Montepulciano d’Abruzzo. Mariapaola mette in risalto il suo lato artistico nelle etichette dei vini che disegna lei stessa e nei nomi che assegna alle varie bottiglie: ognuno in grado di raccontare una storia. Nascono così il bianco Eughenos con quattro etichette dedicate che simboleggiano la ciclicità delle stagioni e della vita, il rosso Nonno Mariano che viene prodotto solo in annate particolari dalla selezione delle uve di montepulciano provenienti dai vigneti più datati. E poi ancora, il rosato Sogni d’Anarchia dove le uve rosse, pigiate e poste in una vecchia botte vengono lasciate a fermentare in completa autonomia, senza colmature ma lasciando al vino la libertà di fare, il rosso Animerranti un vino vivo che Mariapaola definisce “vivace, sincero, errante”.
Oltre i vigneti, la vista si perde sul monte Morrone, splendente com’è nel verde dei boschi e nel grigio della pietra calcarea che gli sono consoni. Noi chiacchieriamo comodi sotto l’ombra di alcuni noci e i calici si riempiono del bianco Futura. Andrea con la Leica in mano si perde fra i filari attratto da una luce di miele che filtra friabile e molle.
A Vittorito è tornata a vivere nel 2005, quando ha dovuto lasciare l’università per motivi di salute. “Passeggiare per le vie interpoderali, fare piccoli lavori in campagna è stato salutare per il corpo ma soprattutto per la mente. Doveva essere un ritorno temporaneo e invece non me ne sono più andata”. Dopo essersi barcamenata tra diversi lavori precari, l’intuizione di provare a vivere della propria vigna l’ha avuta quando è diventata sommelier. Così dal 2011 ha iniziato a dedicarsi più intensamente ai vigneti.
Lo stare in paese non le pesa, anche se fa poco vita di piazza, ma deve prendere sempre l’automobile quando ha bisogno di qualcosa, mentre nei campi riesce ad andarci a piedi. Quello che invece è più difficile ha a che fare con la sua attività. In pochi credevano in lei all’inizio: perché è una donna e non era del mestiere. È stato complicato anche trovare terreni disponibili dove impiantare i nuovi vitigni per via delle proprietà indivise e per una certa inutile reticenza dei proprietari che preferiscono avere terreni in abbandono invece che venderli. Partecipare al Programma di Sviluppo Rurale (Psr) che dovrebbe favorire l’imprenditoria agricola giovanile poi, si è rivelato un vero incubo, tra burocrazia infinita, lentezza degli uffici regionali e scadenze stringenti. I fondi del Psr vinto nel 2016 sono arrivati solo nel 2022 con un carico di ansie non indifferenti. “Dovrebbero essere fondi che avviano giovani all’attività agricola, ma se non hai una famiglia alle spalle o la possibilità di investire dei soldi non vai da nessuna parte”.
Un altro giro di bianco e le parole si fanno più frizzanti, i pensieri si sciolgono e viaggiano tra i filari del campo. Mariapaola si definisce un’artigiana, il suo è vino naturale, senza prodotti chimici sul campo – che non siano zolfo e rame – e in assenza di agenti stabilizzanti in fase di vinificazione in cantina, dove semplicemente accompagna l’uva nel suo processo di trasformazione in vino. “Oggi la maggior parte di chi fa vino commerciale, non tocca neanche più l’uva con le mani. L’uomo tocca semmai il volante di un trattore e un macchinario tira via i grappoli. Spesso si usano così tanti prodotti fitosanitari che poi in cantina non parte la fermentazione perché i lieviti naturali presenti nelle bucce degli acini sono compromessi e così si ricorre ad agenti lievitanti aggiuntivi”. Questo processo meccanizzato e chimico restituisce un prodotto standardizzato che nulla ha a che vedere con i vini naturali. È come se ci fossero due mondi molto lontani che fanno lo stesso prodotto, il risultato del processo può essere più industriale o più artigianale.
Il sole è ormai tramontato, in vigna si presenta Geremia, il vicino di campo. Alto, dinoccolato, dall’aria cortese e il passo di chi sembra portare sulla schiena il peso del lavoro nei campi. Geremia mangia una mela e s’informa sulla gradazione delle uve. La vendemmia è ormai prossima, anche se un attacco tardivo di tignola sta mettendo in pericolo la Malvasia. Discutono ancora un poco di uve e poi si avvia col passo ancora più stanco verso il paese. La vita contadina è fatta spesso di rapporti complicati, ma talvolta – fortunatamente – anche semplici e frugali.
È quasi tempo di ripartire, il giorno si sta chiudendo e il cerasuolo nel bicchiere per il terzo giro di assaggi è terminato. I pensieri ora galleggiano sopra le nostre teste ed è il momento di riemergere in superficie, allora poniamo a Mariapaola la domanda originaria, quella che c’ha fatto inabissare in questa porzione di Valle Peligna oggi. Perché si resta? Perché nel nostro andarcene sentiamo il bisogno di tornare a casa e come una vite ci aggrappiamo ai luoghi, alla terra delle nostre origini per poi ad un certo punto decidere di mettere radici, rinunciando a un lavoro sicuro dietro una scrivania per sporcarci le mani con la precarietà dei campi, a una vita comoda ne preferiamo una faticosa, come te lo spieghi?
“Quando sei giovane il tuo animo ribelle non ti fa accettare certe condizioni dettate dal paese e l’unica cosa da fare è andarsene. Per alcuni poi arriva un richiamo. Col tempo si è rafforzato il mio legame col territorio e quando ho piantato la mia prima vite, quando ho messo materialmente delle radici nel terreno, ho capito che non me ne sarei mai più andata. Ora avevo qualcosa di cui prendermi cura. A volte mi chiedo come sarebbe stata la mia vita se non ci fosse stata questa montagna qui davanti. Il Morrone che vedo da casa e dal campo e che ogni giorno mi accompagna. Anche se poi non è esattamente così, questa montagna per me è protezione, come la mia casa”.
“Vado spesso fuori per lavoro – continua Mariapaola -, posso stare via per qualche tempo, un mese, due mesi, ma è sempre qui che ritorno. Questa terra ha un grandissimo potenziale, non possiamo andarcene e abbandonare tutto. Quando i nostri nonni e bisnonni se ne sono andati, non avevano alternativa se non la fame, oggi è diverso. Non dico che vedo quello che faccio come una missione, ma è come chiudere un ciclo, dare nuova vita alle cose, come quando ho recuperato una terra abbandonata ed è diventata la mia vigna o come quando ho deciso di fare questo lavoro, di provare a vivere con il vino. Mio nonno negli anni Sessanta ha dovuto lasciare la vigna a causa della povertà. Ha mollato qui moglie e figli ed è finito in Belgio a lavorare nelle miniere. Quando lo scorso anno dopo tanti sacrifici da Vittorito sono partite trenta casse del mio vino per il Belgio ero emozionatissima, ho pianto tanto e ho sentito che avevo finalmente reso giustizia a mio nonno. Quel giorno si era chiuso un ciclo”.
Salutiamo Vittorito e Mariapaola per riemergere dal nostro inabissamento. Mentre risaliamo alcune immagini appaiono chiare in mente: la montagna di cui ci accorgiamo solo partendo, la partenza necessaria per conoscere il mondo e un po’ anche se stessi, la terra dove mettere le radici, la casa come un approdo sicuro, il paese da cui salpare e poi alle volte, col vento a favore, ritornare.
Mi pento di aver letto l’articolo solo ora.
Voglia della riconquista delle proprie radici.
Complimenti a tutti i giovani che hanno e faranno questa grande scelta.