Parole, battute, risate

 

Io parlo tanto, troppo, di tutto.
Parlo per imbarazzo, per coprire i brontolii dello stomaco e per riempire vuoti silenzi.
Parlo soprattutto se ho un problema. Ne parlo fino allo sfinimento, con la speranza di consumarlo raccontandolo dieci, cento, mille volte, per farlo più piccolo, leggero e sopportabile.
Parlo spesso di cose lievi, per sorridere a costo zero e rendere un po’ più semplice la vita.
Mi piace discorrere di argomenti importanti: filosofeggiare con il prossimo, condividendo opinioni nel tentativo di dare un senso a tutto. Alla vita, al destino, al tempo.
Da bambina parlavo poco, ero molto timida, però le cose le dicevo a me stessa: l’unica ascoltatrice di fronte alla quale non diventavo rossa nello sbagliare un congiuntivo.
Verso i tredici anni ho iniziato a mitragliare di parole e tempi mal coniugati le persone.
Parole, battute e risate.
Magicamente le mie guance non si coloravano più, neanche davanti al ragazzo che mi piaceva: nascondevo la vergogna dietro una sorta di loquace aggressività.
Parole, battute e risate.
Parole come quelle di Pulcinella che, ridendo e scherzando, dice sempre ciò che pensa.
E niente mi importava se “Il riso abbonda sulla bocca degli stolti”, perché guardavo sempre la Luna e, quando il saggio me la indicava, io la spiegavo a lui.
Parole, battute e risate.
Con il passare degli anni, grazie a muliebri condivisioni davanti a tazze di caffè fumante, ho imparato a parlare di ciò che avevo dentro, nella parte più nascosta del mio cuore.
La Luna nel cielo, il firmamento dentro.
Raccontavo di quanto fossi buona e pessima; empatica ed egoista; generosa e invidiosa.
Parlavo, facevo battute e ridevo.


Porgevo l’altra guancia e non sapevo mai se avrei ricevuto un ennesimo schiaffo morale o finalmente un bacio accademico.
Smettevo di parlare, di far battute e ridere. Diventavo seria, piangevo, mi tormentavo e cercavo dita che mi indicassero la Luna, ma avevo dentro il firmamento spento e vedevo solo il buio.
Quando non si riesce più a vedere la Luna, si è convinti che non esista, che non sia mai stata nel cielo e che il saggio, con quel dito indicatore sempre alzato, sia solo uno stolto, pur non ridendo mai.
Nonostante questo continuavo a parlare, a ridere e a fare battute, mentre cercavo disperatamente una Luna, un lampione, una luce qualsiasi: un motivo per guardare verso il cielo.
Eseguivo voli pindarici nel mio firmamento spento e li raccontavo come viaggi avventurosi pieni di perigli, tenzoni e loschi marrani contro cui pugnare.
Ne parlavo, dicevo e raccontavo.
Mi domandavo come riuscissero a star zitti coloro che stanno zitti, dove si trovasse il posto in cui vengono seppellite le parole non dette, le gioie inespresse, le paure celate.
Il cimitero delle parole, delle battute e delle risate.
Pensavo che non sarei mai stata in grado di fare niente del genere: fare a meno di parole, battute e risate.
Ero convinta che sarei esplosa senza una valvola di sfogo da cui fare uscire almeno una stella del mio firmamento, quando la pressione diventa ingestibile.
Invece ci sono riuscita.
Ci riesco.
Oggi ci riesco.
Non mi piace, ma ci riesco.
Sto zitta -Ssshhhh!!!- per intere ore.
Il firmamento in cielo e la Luna dentro.
Ho scoperto che è facile stare zitti.
Non bisogna cercare il momento giusto per parlare, i vocaboli più adatti, il tono di voce adeguato e il congiuntivo corretto.
Si parla del clima, del rincaro dei prezzi, delle zanzare fastidiose e poi   si sta zitti.
Zitti e mosca.
È già stato detto tutto e ripetere sarebbe inutile.
Ssshhhh!

gRaffa
Raffaella Di Girolamo

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