Quotidianamente, leggiamo o sentiamo l’espressione inglese Revenge Porn, utilizzandola tuttavia erroneamente. Tale termine confeziona una violenza di certo non nuova, ma di cui il digitale e le tecnologie, principali “mezzi” con cui viene agita, ne hanno trasformato le dinamiche. A tal proposito, è importante tenere a mente che anche la diffusione cartacea senza consenso è reato.
Il RP è balzato all’attenzione pubblica e politica nel 2016, quando Tiziana Cantone si tolse la vita a causa della gogna innescata da un suo video intimo messo in rete dall’ex fidanzato. Solo nel 2019, l’acquisizione, la condivisione e la diffusione non consensuale di materiale intimo è diventata una fattispecie di reato autonoma, con la legge n. 69, dove si cita la “Diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti” e non il termine RP, invece in voga nei media e nella narrazione quotidiana. La problematicità della nomenclatura è lampante perché nessuna di queste parole – “Revenge” e “Porn” – ha a che fare con il fenomeno in sé. Parlare di vendetta (Revenge) evoca inevitabilmente una colpa della donna, infatti sono messe alla gogna dal branco online e offline, e, troppo spesso, la vergogna e le vessazioni portano a non denunciare.
Si tratta di controllo e potere esercitato sulla donna, minacce al fine di estorcere denaro e tanto altro ancora che di certo non ha a che vedere con la vendetta. Parlare di Pornography (Porn), invece, implica una rappresentazione delle donne come attrici consenzienti, di scene fittizie, e non come vittime REALI, la cui intimità è stata violata, contro il loro consenso.
Ogni volta che utilizziamo il termine Revenge Porn, attuiamo il cd. victim blaming, una malsana pratica di colpevolizzazione della donna, e lo slut shaming, bannando la sua sessualità e il suo modo di viverla perché non conforme alle aspettative di genere imposte. La risposta dell’opinione pubblica è, infatti, sempre troppo moralista e centrata sulla vittima anziché sul reato, sul consenso e sui colpevoli, ignorando le conseguenze, spesso fatali, di questo meccanismo crudele che si innesca.
I media offrono svariate possibilità per agire violenza, anche grazie ad aspetti strutturali che si configurano come facilitatori. Telegram è sicuramente uno di questi, in quanto, è possibile creare gruppi chiusi con un gran numero di iscritti, nascondere sia il numero di telefono che il proprio nome, creare chat segrete, ma, soprattutto riaprire indisturbati nuovi canali dallo stesso contenuto. Solo nei mesi di lockdown 2020, sono stati scoperti canali, amministrati anche da minorenni, con più di 40mila iscritti. In questi canali, è possibile trovare veramente di tutto, come anche i dati personali della persona raffigurata e il cd. DEEP FAKE, che rientra – come il DNCII – nei reati di image-based sexual abuses (abusi sessuali basati sull’utilizzo di immagini). In questo caso, ci si appropria di foto o video, manipolati in modo da creare dei falsi (fake), davvero realistici, che poi vengono diffusi. Tra le vittime, anche personaggi famosi come l’attrice Emma Watson.
È necessario uscire da logiche stereotipate e colpevolizzanti, cambiare il vocabolario che influisce inevitabilmente sull’opinione pubblica e richiamare la responsabilità delle piattaforme digitali che ora più che mai devono essere consci che il digitale può agire con preponderanza e pervasività nelle nostre vite, considerando tra l’altro che non sempre è possibile garantire la rimozione totale di un video o una foto, che possono essere replicabili.
“Cara Franca, ti vogliamo dire grazie.. perché non sei stata zitta, come tanti avrebbero voluto, perché non ti sei arresa, e a chi ti ha detto che avresti dovuto provare vergogna hai risposto rendendo pubblica questa storia, in cui a vergognarsi dovrebbero essere tutte le altre persone coinvolte. Non tu. Perché nel sesso, libero e consensuale, non c’è vergogna. Non è così. Immorale è ciò che hai dovuto sopportare.”
(lettera che giornaliste e donne dello spettacolo hanno inviato alla maestra d’asilo di Torino, vittima di DNCII, utilizzando come nome di fantasia quello di Franca Viola)
Per un maggior approfondimento, è possibile consultare sul sito online di Chayn Italia l’articolo Revenge Porn: 5 importanti motivi per cui non dovremmo chiamarlo con questo nome. Inoltre, si consiglia di visitare questo link.
Giulia Di Petrucci
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