Nella provincia dell’anima
C’è il caldo tipico di un inverno senza inverno, noi che attraversiamo l’Appennino e Daniela Pes nello stereo a rendere questo viaggio vagamente contemplativo. Per i geografi le montagne meridionali iniziano a Bocca di Forlì, quando la Statale 17 lascia Castel di Sangro e disorienta in un intreccio di svincoli e direzioni. Lì inizia anche il Molise, ma la continuità nel paesaggio è pressoché totale e seguitiamo a pensarlo un territorio gemello. Terra di acque e di fiumi, il Trigno, il Biferno, il Volturno, il Fortore, il Tappino, di dighe, laghi e centrali elettriche: Castel San Vincenzo, Guardialfiera, Occhito.
C’è una pala eolica che gira senza troppo entusiasmo, dietro un’altra e poi un’altra ancora, e così lungo tutto il crinale di una montagna. Terra di Sanniti – pastori guerrieri, ma soprattutto ribelli – che diedero filo da torcere a Roma, che furono traditi e sconfitti, ma mai veramente domati dall’autorità imperiale. E se nell’antichità i romani non riuscirono a piegare lo spirito dei locali, in epoche più recenti sembra non esserci particolarmente riuscita neanche la modernità, visto il carattere prevalentemente agricolo e rurale dell’interno.
Ci sono campi che brillano come cocci di bottiglie, alberi da frutto in fiore e il grano alto già un paio di palmi. Per qualcuno è la primavera, ma siamo a metà febbraio ed è solo la cifra della catastrofe imminente. Lasciata Campobasso, proseguiamo sulla fondovalle del Tappino, direzione Foggia. Allo svincolo indicato, risaliamo verso la morgia – come la chiamano i locali. È Pietracatella, milleduecento abitanti in provincia di Campobasso: uno sperone tufaceo con i resti dell’antico castello, poco sotto il campanile di San Giacomo e a cascata l’intreccio di vicoli e case aperto a sud come un ventaglio.
All’ingresso del paese, una casa ammalorata funge da spartitraffico, nessuno più la abita: su una parete ha la vecchia insegna con la scritta Pietracatella, sotto, i manifesti dei defunti. Antonio Mastrogiorgio, cantautore e poeta dal sorriso sbarazzino, ci accoglie con lo spirito che contraddistingue le genti delle terre di transito. Rivendica, sin da subito, il suo essere figlio di Annibale e della transumanza, di luoghi che erano cosmopoliti e aperti al mondo già duemila anni fa.
Da oltre dieci anni porta avanti un progetto cantautorale, La suonata balorda, che nel 2015 ha vinto il premio De André con il brano Sangue amaro, tratto dal primo album Sentimento da cantina, seguito nel 2019 da un altro lavoro in studio: Alla buon’ora, un viaggio allucinato e tragicomico. Nel 2021 ha dato alle stampe la raccolta di poesie E’ finita la gioventù, per i tipi di Albatros.
Nel 2023 ha avviato un progetto solista e al momento ha all’attivo due singoli autoprodotti: U Male de Sante Denate e A Trasumanz(e) dove mescola elettronica e mediterraneo, dialetto e vite di paese, storie di diavoli e santi, di epilettici, pecore e vacche. Il risultato è un sound antico ma fresco, organetti, tamburelli e sintetizzatori coesistono in una retroinnovazione musicale.
“Sono affascinato dall’uso quotidiano e non commerciale che si faceva della musica nella società contadina – racconta l’artista -. Mi piacerebbe recuperare la forza musicale del canto. Anche usando poche parole, come ho fatto nei miei due ultimi brani, è possibile comunicare qualcosa di significativo. Mi piace l’idea di ridare lustro e dignità a queste storie, senza trasformarle in una pacchianata, trovare un anello di congiunzione tra quello che è passato, e in qualche modo è anche irripetibile, e il nostro presente”.
Antonio è anche uno degli interpreti più vivaci delle maitunate, una tradizione popolare locale che rischia di scomparire. La notte di capodanno, divisi per comitive, i paesani si dilettano per le strade dell’abitato in canti e stornelli improvvisati fino all’indomani. Organetto, bufù, raganella, martello e voce sono gli strumenti prediletti. Il rito deriva dalla tradizione pastorale e ha un carattere tipicamente carnevalesco – le strofe sono di questua, di augurio o di scherno. Anticamente erano molto diffuse tra Abruzzo, Puglia e Molise, oggi sopravvivono in una manciata di paesi. A Pietracatella negli ultimi anni sembrano essere tornate in auge: una buona scusa per stare insieme, bere vino fino alla mattina, fare paese. Continuare a tenerle in vita, ha sì una funzione sociale, ma protegge la storia dei luoghi dall’oblio.
Risaliamo l’abitato e veniamo risucchiati da quel luogo vorticoso che tiene insieme il poco di comunità che si agita a metà mattina: il bar. Una ragazza riccia e bionda entra e chiede un crodino, Michele, l’operaio comunale, fa la pausa con una mezza Peroni, al tavolo vicino, quattro anziani ordinano una Forst. Sul plateatico della piazza, lastricato di travertino e appena riconsegnato al paese, tre pensionati procedono avanti e indietro, come nuotatori in una piscina olimpionica. Dal belvedere campi, colline e case sparpagliate come virgole nel paesaggio; il lago di Occhito che divide dalla Puglia; il Matese e le Mainarde appena innevate; da uno scorcio più in là – spanciato al sole – il capoluogo Campuasce.
Il paese si rivela un mondo dentro al mondo: il numero di storie che è possibile catalogare tende all’infinito. I frequentatori del bar accolgono il caldo anomalo come lucertole in cerca di una forza ristoratrice, accendono una sigaretta, hanno voglia di raccontarsi. La salsiccia di Pietracatella con la polvere di finocchio e il peperoncino macinato che dà la tipica colorazione rossastra; le maitunate – studiate dagli antropologi dell’Università di Siena – che coinvolgono “anche una comitiva di sole donne”; le partecipazioni al Festival del Folklore di Ferrazzano e quelle al Festival Internazionale della Zampogna di Scapoli; la bellissima chiesa di San Giacomo che non possiamo non visitare; il lago di Occhito che meriterebbe una valorizzazione maggiore. Nell’infra-ordinario, nei linguaggi comuni, nei rituali della socialità, nell’identificarsi col paesaggio, si ripete la scrittura plurale del paese.
Ci perdiamo così in una sequela di birre e campari, interrotti soltanto dall’arrivo del sindaco che, invitato da Antonio, accetta di buon grado un analcolico. Pacato quarantenne, professionista della progettazione, sembra avere le idee chiare. Ci racconta del suo operato senza ripetere la formula “il turismo ci salverà”, vera iattura per i paesi. La cosa si fa seria – a tratti incredibile – quando non nomina mai la parolaccia borghi, né cita l’imminente inaugurazione di un ponte tibetano, di un campo da padel o di una panchina gigante. Non sogna un paese-vetrina e sostiene che il turismo possa rappresentare soltanto un’economia complementare.
Forse è l’effetto della birra, forse quello del campari, ma la calma serafica di questo amministratore e le idee semplici da risultare rivoluzionarie, ce lo fanno apparire un tupamaros della valle del Tappino. “Mi piacerebbe lasciare qualcosa ai posteri, creare un futuro dopo di me. Stiamo cercando di strutturare una filiera con i produttori locali nell’area industriale per trasformare i prodotti della terra. Poi se qualcuno affitta la mansarda ai turisti nel mese di agosto – aggiunge il primo cittadino – è buono per lui, ma non è questa un’economia in grado di reggere da sola un paese intero”. Insomma se cercate la wine experience o la degustazione di formaggi bio nell’uliveto, vi tocca girare a largo.
Intanto grazie alla residenza per anziani, al centro per minori non accompagnati, allo spazio di coworking, all’ostello comunale e alla futura cooperativa di comunità, in paese provano a trattenere l’intrattenibile, ad arrestare quell’emorragia di cui siamo i quotidiani e inermi testimoni. Certo i problemi non mancano: la sanità è commissariata e a pezzi; le strade traballano con le piogge; i trasporti – quando ci sono – sono quello che sono e i paesi invece di avvicinarsi, si allontanano. I pendolari raggiungono a fatica Termoli o Campobasso, i giovani partono e non ritornano, gli anziani se ne vanno. Un tetto s’è imbarcato, tra i tegoli s’insinua la pioggia. Una porta l’hanno sbarrata, pare nessuno più la riaprirà. “Si è perso completamente il livello che si occupa dell’anima. Solo dopo i miei vent’anni mi sono reso conto dell’importanza dei riti, del valore degli anziani” commenta Antonio.
Potremmo essere in un paese qualunque dell’Appennino centro meridionale, culla di una civiltà antichissima, matrice di luoghi diversi e a tratti simili, dove l’uomo, nei secoli, ha fatto ciò che ha potuto per sopravvivere. Ha scalfito e accarezzato il paesaggio, rimestato la terra, addomesticato versanti, ha modellato la pietra e fatto case, ha costruito autostrade per gli armenti, ha visto partire la meglio gioventù e con ritardo accolto il moderno.
Oggi continua quello stato di sopravvivenza, la marginalizzazione di queste aree è indotta dalle politiche pubbliche, dal disinvestimento dello Stato, dalla mancanza di senso nella visione politica. Antonio fa il possibile per restare: l’operaio, il poeta, il ricercatore, l’animatore di comunità, anche se il vero mestiere resta quello più difficile – abitare questi luoghi. A parlare con lui, l’idea del paese bucolico, tipico stereotipo da programma televisivo, da rappresentazione esogena, si affloscia come cioccolata al sole.
“La vita di paese può essere anche una cosa molto dura, lontana da quella di chi ne parla in maniera idilliaca. Ci sono difficoltà e disagi, c’è tanta marginalità che stenta ad emergere, ne parlo spesso anche nella mia poesia. Sono luoghi che sanno essere, per certi versi, anche spietati, come del resto tutti gli altri nel mondo, dove il pettegolezzo non lascia scampo, penso ai ragazzi, alle ragazze soprattutto, al controllo sociale che viene esercitato, allo stigma del pregiudizio”.
Antonio in questi mesi sta presentando in giro anche uno spettacolo teatrale, La provincia dell’anima: un viaggio nei margini, quelli geografici e quelli dell’intimo. “Un mondo polveroso, arrugginito, che racconta di personaggi improbabili e sconfitti, avventure tragicomiche, denso di appassionata poesia. Cerco di tenere insieme musica, suoni, racconti e di veicolare il territorio in maniera vera, con tutta la marginalità e le problematicità che contiene. Il margine nel margine. La periferia della periferia. La provincia dell’anima”.
Mollati gli ormeggi dal bar, che per i maschi-bianchi-etero-cis è il porto sicuro del paese – sarebbe bello che fosse così anche per tutte le soggettività marginalizzate come donne, migranti, omosessuali, identità non binarie – raggiungiamo il quartiere San Giacomo. Questo prende il nome dall’omonima chiesa alla quale Antonio è molto legato – tra questi vicoli ha passato l’infanzia con i nonni. Attraversando le viuzze umili della parte antica, traspare la sensazione di case ancora vissute: dai panni stesi, da una signora che si sporge e saluta, dall’odore di sugo nell’aria, da un’Apecar parcheggiata fuori ad un’abitazione. La chiesa duecentesca è ordinata e spoglia, a spiccare è il crocifisso ligneo di fianco l’altare biancheggiante.
Restare in Molise, per Antonio, è stata per certi versi una scelta, per altri un caso. Se ne sarebbe volentieri andato, a tratti lo ha sperato, ma col tempo si è reso conto che anche altrove, non sarebbe cambiato poi molto. È stato uno dei pochi della sua generazione a non spatriare: “a trattenermi sono state le circostanze: un lavoretto qua e là, la famiglia, la storia dei luoghi. Poi è subentrata un’età oltre la quale andarsene sarebbe stata una fatica, ma anche la passione per la musica ha agito”. In noi si agita la sensazione che in un contesto meno periferico di questo, Antonio sarebbe ben più conosciuto e apprezzato. Farebbe del suo talento artistico la professione principale. Sarebbe accostato a Eugenio Bennato, a Vinicio Capossela, ma Antonio non sarebbe lo stesso lontano da Pietracatella e solo restando è potuto diventare quello che è.
Il nostro tempo anche stavolta è agli sgoccioli. Andrea ripone la Leica e s’impolpa le salsicce che Antonio ci ha gentilmente lasciato in dono. Salutiamo il Molise consapevoli del richiamo. La moltitudine celata nell’ordinario, il mondo antico racchiuso nel cibo e nel canto, la potenza ancestrale del rito, la ricchezza impolverata nelle case di chi ancora abita i paesi, pare ci stiano chiamando: ma bisogna attraversare la soglia.
Tra corpi inquieti, paesi mobili, storie e vite transumanti e fragili, Antonio continua la sua corrispondenza scanzonata e intima dalla provincia dell’anima: “Essere voluti rimanere ai confini del panorama musicale e geografico nazionale, penalizza, è inevitabile. Sei marginalizzato, fuori dai giri giusti, senza le conoscenze che contano. Ma di questo non me ne importa tanto, continuo a fare quello che mi piace. Sogno di avere un lavoro dignitoso e un po’ di tempo libero per gli amici, per la musica e la poesia, perché il lavoro operaio annulla tutte le tue passioni, ti toglie la cosa più preziosa: il tuo tempo. Altrove non so come starei, ma del resto ogni mondo è paese. Io continuo ad essere innamorato della calma di questi luoghi, una delle cose che preferisco, in mezzo a mille situazioni problematiche”.
Terra e mestieri è a cura di Andrea Calvano e Savino Monterisi
La bellezza non si commenta.Tantomeno quella delle parole, quelle che ogni volta mi aspetto da Savino e che pure ogni volta mi sorprendono e diventano un quadro che ti toglie il respiro, una musica che ti rimescola l’anima,un sorriso che ti pacifica il cuore.”Un mondo dentro al mondo” altro non sono che le parole e le immagini e i suoni così vicino a noi che non sappiamo più ascoltare e vedere. Per fortuna c’è Savino e Andrea e Antonio Mastrogiorgio a ridestarci da questa pigrizia mentale che ci attanaglia e a farci dire in questo tempo incerto e pauroso:Adesso sappiamo cosa può salvarci.Grazie Savino. Orgogliosamente amica. Beatrice
Grazie