Nel nido di Chiù

Nel nido di Chiù

Cosa ci fa una colonna nel mezzo della strada all’incrocio tra Ofena, Calascio e Castelvecchio Calvisio? Indica via delle vigne, ma di vigneti non vi è traccia. La pioggia lava il viso di Andrea che noncurante si sforza di immortalarla. L’erba attorno a questo svincolo è già paglia, una peluria dorata. Profuma di balle e di stalla. Un cinghiale affamato ha dissodato il terreno in cerca di tuberi; il mandorlo pare non aver superato l’inverno. Cicorie, matrone e cacigni attendono di essere raccolte e tra qualche giorno, dopo quest’acqua, lo saranno anche gli asparagi.

Più a monte è un freddo pomeriggio di aprile e ci ritroviamo randagi a calpestare ciottoli di fiume a millequattrocento metri d’altezza. Nel raggio di diversi chilometri non c’è l’ombra di un corso d’acqua – gente bizzarra, gli architetti, ma questo ognuno lo sa. È la pavimentazione dell’abitato che attraversiamo: case dalle pietre bianche e calcaree ben in vista, l’atmosfera medievale è tradita solo dalle insegne di alcuni locali. Il cielo è grigio e minaccioso. I profili petrolio delle montagne più lontane si perdono come onde nel mare, mentre una cima a ridosso è spolverata di neve e allora trova giustificazione il vento secco che si scorna sul nostro viso. Sua maestà il Gran Sasso non accenna a scoprirsi. Andrea teme di aver sbagliato anche stavolta abbigliamento e già immagina una grappa riscaldante sulla via del ritorno. In giro non c’è letteralmente nessuno, se non una donna che armeggia col cartello che pubblicizza la sua attività e la prepara alla stagione che verrà. 

Siamo a Rocca Calascio, giunti fin qui per incontrare Valeria Befani, cinquantenne, artigiana della lana e creatrice del marchio Chiù. Romana di nascita, in Abruzzo è arrivata grazie a due zii intraprendenti: Valentino e Franca, che hanno deciso di comprare un rudere in un paese di rovine.

Immagino Valentino nel 1973 che si aggira tra queste case, allora dirute. Viene da Roma, ama la contestazione e in città in quegli anni è fortissima, ma lo è ancor di più la sua passione per la montagna. Cortei di giovani proletari si aggirano per le vie del centro cittadino: un’avanguardia culturale e politica inedita che sta tentando l’assalto al cielo. Valentino, dal canto suo, vede già svanito il sogno del moderno incarnato nella metropoli e fugge. Quando riesce, prende la sua Millecento, imbraccia uno zaino di tela e gli scarponi di pelle dura e si ritrova a camminare sulle montagne abruzzesi: è il suo modo di fare rivolta. Quel giorno sta camminando tra ciò che resta di un paese diroccato sopra un colle, in cima spiccano come rarità una chiesa a pianta ottagonale e una fortificazione. Terriccio e erbe spontanee ricoprono i resti del paese che è stato e lui decide di farci casa. Bastano cinquecentomila lire per l’affare. Sarà il primo, non può neanche immaginare cosa succederà appena cinquant’anni dopo.

Fa strano essere i testimoni di un vuoto redivivo: qui dove frotte di visitatori si ammassano da giugno a settembre per raggiungere il castello di Rocca Calascio e riprodurlo all’infinito nei contenuti social. L’assenza esalta tutta la bellezza del luogo, come in un romanzo senza umani. Penso alla fine alla quale ci siamo condannati come specie. Se sarà compiuta nel giro di un paio di secoli, questo spettacolo resterà per un po’ agli insetti, agli animali, ai vegetali e ai minerali che ci sopravviveranno. 

Valeria inizia da bambina a frequentare la Rocca al seguito degli zii. Da adolescente la casa diventa il luogo dove passare una serata con amiche e amici davanti al camino o dove fuggire dal tran tran metropolitano. Un giorno, lei ha 21 anni ed è una studentessa di geografia all’università La Sapienza di Roma. Si trova all’ombra della rocca perché l’idraulico deve fare una riparazione in casa. Finito il lavoro è presa da un senso di nostalgia nel dover tornare nella Capitale, il tipico strascico che coglie l’emigrante prima di partire. È allora che si dice: “Se non vuoi tornare a Roma, non devi farlo”. A quel punto la sua vita ha già preso un’altra direzione e Rocca Calascio è diventata la sua nuova casa – o per meglio dire, il posto dove ha un armadio. 

Sì, perché la vita continua girovaga: le incursioni a Roma, l’estate al rifugio Franchetti, l’inverno nella cucina di qualche ristorante e l’autunno nelle Cevenne, nella Francia meridionale dove è solita andare per la vendemmia e la raccolta della lavanda. Solo l’arrivo del primo figlio, ventuno anni fa, rallenta questo scorrere inquieto e la vita diventa più sedentaria e stabile a Calascio. 

“All’inizio i calascini ci chiedevano ‘Ma che ci andate a fare lassù?’ intendendo alla Rocca – racconta Valeria. Per loro erano solo rovine senza valore. Io sono rimasta semplicemente perché mi piaceva, volevo stare qui. Amavo questo paesaggio, la pluralità di significati che è in grado di rappresentare e trasmettere. Prima non c’era nessuno”. Era l’unica abitante insieme ai suoi vicini, una famiglia trasferita anch’essa da Roma per aprire una pionieristica attività ricettiva e un ristorante: il Rifugio della Rocca. 

Valeria siede al telaio con una fascia rossa che le cinge i capelli e un corposo scialle ocra a ripararla dal freddo. Dietro gli occhiali tondeggianti nasconde occhi piccoli e espressivi. Armeggia con fare sapiente, tira a sé l’assicella di legno, la navetta, a cui è arrotolato il filo di trama. La passa nel varco che si apre tra i fili dell’ordito e poi torna a tenderla. Questo suo fare e rifare, dopo un certo numero di ore ed infinita pazienza, crea la trama del tessuto.

L’arte della tessitura è arrivata quasi per caso nella sua vita, nel 2005, quando è stata presa come garzone di bottega per l’albergo diffuso di Santo Stefano di Sessanio, Sextantio. Il laboratorio di arti e mestieri era gestito da Assunta Perilli dell’azienda La fonte della tessitura di Campotosto. “A Sextantio tutte le coperte sono realizzate artigianalmente – spiega Valeria – e Assunta aveva bisogno di essere sostituita d’inverno quando le era impossibile raggiungere Santo Stefano per via delle nevicate. Così poco alla volta ho imparato a tessere e poi è diventato il mio mestiere”. 

A questa esperienza, è seguito un laboratorio di tintura naturale nell’orto botanico del Parco Nazionale Gran Sasso Laga nel convento di San Colombo, a Barisciano, dove ha potuto unire al lavoro, la passione per le erbe spontanee.

Il primo telaio è arrivato da Tocco da Casauria, è un legno vecchio almeno trecento anni che ha salvato dalle fiamme del camino – fine certa alla quale era destinato – recuperandolo dalla legnaia.

Chiù è anche il verso dell’assiolo, uccello migratore che nidifica nei pressi della Rocca. Col suo marchio produce coperte, sciarpe e tappeti che poi mette in mostra nella sua casa-vetrina-laboratorio alla Rocca. Compra la lana da Valeria Gallese, imprenditrice dell’azienda Aquilana, che produce filati provenienti da pecore locali. Valeria Befani li tinge grazie all’iperico, all’anthemis tinctoria, ai malli e alle foglie di noce e all’elicriso.

La storia di Valeria è un nodo nella fitta rete di donne che in Appennini lavorano con la lana, come quella de Lamantera Project di Benedetta Morucci, che abbiamo già raccontato su queste pagine. Ne viene fuori una geografia tutta al femminile, di imprenditrici intraprendenti che mettono a sistema saperi tradizionali, scelgono piccole filiere artigianali e risorse ambientali locali e applicano processi di produzione agro-ecologici. Un modo di avere a che fare con la montagna completamente rinnovato, che prende dal passato senza restarvi ancorato o scimmiottandolo in maniera folklorica.

Il cielo ci concede una piccola tregua dalla pioggia, non certo dal freddo. Scendiamo nella piana sotto il paese. I campi sono prossimi ad entrare in produzione, quelli arati attendono il seme. Sul ramo di un cedro dell’Himalaya dai riflessi argentei, un capriolo ha ripulito le sue corna dal velluto. Il coltello di Valeria infilza il terreno umido e la rosetta basale di un papavero, le mani si impiastricciano tutte. Pippi, la sua cagna, la osserva curiosa. Le erbe spontanee le ha apprese dalla mamma: “In ogni situazione di campagna in cui ci trovavamo, mia madre si isolava e andava a raccogliere le erbe, così ho imparato a razzolare anche io. Poi nelle Cevenne ho iniziato a raccogliere la lavanda a cottimo. In realtà se non dovessi lavorare per guadagnarmi da vivere, starei tutto il giorno nei campi . Mi piace anche il lavoro al telaio, peccato le tante ore passate al chiuso”. Oggi raccoglie fiordaliso, sambuco, achillea, papavero, cicoria. Le trasforma in tisane, insalate e ovviamente elementi da tintura. 

Su quello che manca a Calascio è abbastanza centrata: un bagno pubblico, una farmacia e piccoli servizi che possano facilitare la vita delle persone, come un cinema itinerante, o un sistema di passaggi tra paesi alla bla bla car, come ha visto nelle Cevenne. “Lì se hai un figlio puoi mandarlo al corso di batteria o di capoeira senza troppi pensieri o puoi scegliere una scuola dove hanno la mensa biologica, qui se devi mandare tuo figlio a scuola è già tanto se hai lo scuolabus”.

Risaliamo verso Calascio dove qualche forestiero si affaccia timidamente al bar per chiedere informazioni sulla visita al castello. Il rapporto di Valeria col turismo è controverso, lo definirei un rapporto tossico: non ne può fare a meno, ma ci convive malissimo.

Questa massa che deve fotografare, selfare, immortalare, consumare e poi condividere, postare, pubblicare ha un suo rumore di fondo che si porta dietro e che noi stessi quando ci siamo immersi tendiamo ad ignorare, ma che non sfugge a chi abita. “I turisti soprattutto li sento – commenta -: durante la stagione lo spazio si riempie di suoni alieni, trolley e cassonetti trascinati sul selciato, moltissimi viaggi di motocarriola, il volo dei droni e poi affanno, lamentele e agitazione per le incognite in agguato, telefonate, ciabattate e tanti ciceroni”.

Un flusso che le dà da vivere e le rende la vita impossibile, circa centomila visitatori l’anno. “Quando ero piccola, dopo Pasqua e dopo Ferragosto, andavamo in giro con la busta di plastica a raccogliere i rifiuti lasciati da chi era passato a fare la gita fuori porta. Erano gli unici giorni in cui c’era qualcuno. Ora ad agosto c’è il maggior afflusso, e noi continuiamo a raccogliere gli avanzi, carte, cartacce, resti di cibo, quando non di escrementi umani. Sono quattro o cinque anni che penso che me ne devo andare, ma tanto ad agosto c’è l’inferno ovunque, qui almeno è fresco e non ci sono le zanzare, conosco il mio nemico e so come affrontarlo” commenta ridendo. 

È la combinazione di over turism e maleducazione a creare una situazione esplosiva per chi abita in paesi così suggestivi e belli, ma questa è anche chiaramente un’occasione lavorativa unica. “Se non avessi i turisti non potrei vivere, ma è vero anche che non posso più vivere il mio paese proprio a causa dei turisti. Ci sentiamo come stuprati, pensa che qualcuno si è portato via un mio gatto. C’è come l’idea che questo paese non sia di nessuno, non c’è molto rispetto del luogo”. Si può campare di turismo ed odiare il turismo? Evidentemente sì, anche perché appare impossibile una coesistenza pacifica.

Intanto proprio grazie a questo ingente flusso, la cooperativa di comunità sopravvive. Vi lavorano diversi ragazzi e ragazze del posto, i quali, diversamente dai tanti coetanei, non sono stati costretti ad emigrare o possono ritornare e trovare un lavoro dignitoso. Sfalciano e curano il verde pubblico, sgomberano le strade dalla neve, tengono puliti i giardini e gli spazi comunali, si occupano della navetta che porta i turisti alla Rocca, affittano le e-bike e fanno da guide.

Il paese ha perso in poco più di un secolo il 93% della popolazione, 1801 abitanti. Oggi restano 125 residenti e le realtà come la cooperativa di comunità o le micro esperienze produttive o artigianali come quella di Valeria, diventano una questione di sopravvivenza per il paese stesso, oltre che un messaggio reciproco e collettivo che pare dire “ce la faremo” o quantomeno “ci stiamo provando”. Le trasformazioni venture saranno decisive, certo per il comune di Calascio che riceverà 20 milioni di euro grazie al cosiddetto Bando Borghi, le incognite saranno di altro tipo. 

Il sole è al crepuscolo e la luce si fa lentamente più fioca. Il paesaggio a valle imbrunisce e degrada. Il Gran Sasso non si è mai concesso alla nostra vista in questa giornata. Andrea ripone scrupolosamente i suoi ferri in auto e io me ne sto ancora un po’ su una panchina che contempla un panorama addormentato. Sento inconsolabilmente di ripartire con più dubbi di quando siamo arrivati. 

Il futuro di Calascio, come di diversi paesi appenninici, è appeso ad un filo. Questi sono gli anni in cui si capirà chi sopravviverà come paese e chi si trasformerà definitivamente in un borgo senz’anima, una rappresentazione artefatta capace di fare ricettività e animazione turistica e poco altro, un incubo che aleggia nelle notti più cupe di Valeria. 

Forse siamo ancora in tempo per scongiurarlo.

Terra e mestieri è a cura di Andrea Calvano e Savino Monterisi

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