Ci fu un tempo in cui ai piani terra dei palazzi, a destra e sinistra dei corsi, delle strade commerciali o degli stretti vicoli del centro, c’erano i negozi.
Espugnate le antiche botteghe dei mastri artigiani che al buio delle lucerne si adoperavano per fornir l’opra anzi il chiarir dell’alba, i negozi furono le vestigia del ‘900 capitalista, dove accumulare le merci prodotte nei grigi capannoni dei nuclei industriali e farne mostra nelle vetrine luccicanti a festa. A obbedire alle stagioni delle mode, come dettava il postal market anticipatore, autunno-inverno l’estate e primavera-estate a febbraio.
La passeggiata serale negli antichi borghi ammodernati o lungo le stradone delle metropoli si dispiegava nello zig zag frenetico sui marciapiedi opposti, a comprare, poco importa cosa, fossero un telefono, un orsacchiotto di peluche o solo uno spremi agrumi a forma di ragno, firmato dall’ultimo designer di grido.
Per regalarsi un trastullo nei momenti di magone, per omaggiare un parente o un amico o solo per attitudine compulsiva: un altro abito, prosciutto o posacenere si sarebbero accatastati nella fiera del superfluo domestico, qualche giorno ancora e poi via, in cantina o nel secchione indifferenziato dei rifiuti, quando ancora gli scarti avevano una discarica in cui andare a transustanziarsi.
Il negozio stava alla massa avida di consumi come la chiesa lo era stata al suo popolo di fedeli: tempio del peccato compulsivo che non pretendeva pentimenti, altare del rito ossessivo da celebrare rigorosamente imbellettati e improfumati, a solleticare l’ego allo specchio e alimentare l’invidia del vicino, che indossasse il cilicio della contrizione per aver rimandato l’acquisto di quell’anello, di quelle calze esclusive, di quella pelliccia che giusto ieri il marito aveva promesso in regalo.
L’orgia collettiva da consumo compulsivo raggiunse l’apice negli anni 80, quando perfino Luca Carboni cantava ci stessimo sbagliando e le commesse del centro non erano le fate. Quando ogni locale come ogni piccolo bugigattolo in città come in paese, in ogni arteria primaria come ogni piccola stradina di quartiere, dava rendite più alte di una villa sull’Appia Antica, quando lo stordimento edonista che si rifiutava di porsi domande ci costrinse a sperperare miliardi che non avevamo mai posseduto.
Chi non avesse vissuto quegli anni e ne sentisse la nostalgia per averne sentito raccontare, sia chiaro, sappia non erano tempi meno bui degli attuali, solo più sfavillanti. Somigliavano a un albero di natale di palle e lucine che alla luce del giorno si rivela per quello che è, povera pianta strappata alla terra e addobbata di ammennicoli penzolanti al vento in attesa che l’artificio notturno restituisca l’illusione della festa.
A guardarla oggi quell’infilata di locali abbandonati, in provincia come in città, quel susseguirsi di vetrine spoglie e buie da cui penzola un’insegna di antichi fasti, dove campeggiano resti di scansie in truciolari rigonfi di umidità, quella malinconia anni 80 che era già presagio di cosa sarebbe stato diventa angoscia depressogena, come risvegliarsi nel pomeriggio di un capodanno di avanzi rinsecchiti, canditi e uvette sparse fra calici semivuoti e posacenere puzzolenti di fumo.
Non è più tempo di frenesie compulsive, – dicono i pusher di cocaina ormai intristiti -, il down della crisi che sembra non finire è momento di ripiegamento e di ripensamenti, se non – suggerisce il pusher – di fughe in mondi di sogni.
C’è chi propone di imbellettare le vetrine vuote, incollarci poster di momenti felici, gigantografie di monumenti che nascondano il buio retro, come nei western quando si erigevano due file di scenografiche facciate in compensato che tanto la cinepresa dietro non avrebbe guardato.
E c’è chi invece se ne chiede il senso.
Quale il destino di quegli stanzoni ai piani terra ormai deprezzati, quale il riuso di quei mega mall in disuso, di quelle cattedrali dedicate ad un dio già svaporato insieme ai paradisi che prometteva, quale la vita che, diamine, non finisce e deve ricominciare. Che forse, per ricominciare, tocca smettere di guardarsi alle spalle a un passato che felice non è mai stato, alle illusioni collettive di facili rendite da lotteria e di orge che, a ben guardare, non ci siamo mai potuto permettere.
Antonio Pizzola
Da taglio delle vene! Immediato! L’intento qual’era? Rivelarsi intelletto superiore o tediarci l’animo, già di nostro dolente?
L’intento era di guardare la realtà. Se guardarla risulta da intelletto superiore significa che si preferisce non guardarla, se è da taglio delle vene la colpa non è di chi la guarda o la descrive, se l’animo duole vuol dire che invece di tediarsi considera la possibilità di una qualche strategia per porre fine al tedio e cominciare finalmente a cercare soluzioni. La realtà non cala dall’alta, si costruisce giorno per giorno, cominciando col prenderne atto. Sempre a mio modesto parere.