Giacciono come ex dimore di principesse addormentate a festa finita, come detenuti in attesa di giudizio o come scatole di un presepe in procinto di smontarsi, capannoni industriali svuotati di uso e di senso, isolati nelle campagne di sterpaglie secche appena fuori l’abitato o dentro ex nuclei industriali, cimiteri di loculi da cui sono state rimosse le bare.
In balia del tempo che li consuma, dei topi che faticano a farne banchetto e delle sterpaglie che spaccano il cemento per riprendersi quanto era loro, castelletto improduttivo in mano a liquidatori fallimentari in affanno per cercarne un reddito da restituire ai creditori.
Prodotti di tempi di ottimismo, di finanziamenti elargiti con manica larga da banche andate gambe all’aria e poi salvate in estremis dall’assistenzialismo statale che, se deve aiutare, sostiene chi il denaro l’ha incautamente frullato nel minipimer della finanza o dell’improvvida impresa.
Scatoloni prefabbricati in tutta fretta senza pretese di qualità architettonica, che il sovrapprezzo di un progetto sarebbe stato ingiustificato nel business plan da sottoporre al perito bancario: bastava fossero contenitori di merce e di addetti senza identità, doppio turno faccia al muro per fumarsi appoggiati a un pannello in cemento armato i cinque minuti a ora di pausa.
Senza finestre, servizi minimi e spazi comuni e relax, senza preoccupazioni per il paesaggio che comunque avrebbero invaso, i capannoni rendevano ragione del nome con cui si identificavano, grosse capanne rispondenti alle norme, cubatura, asl, vigili del fuoco e genio civile, quanto indispensabile per passare al vaglio degli enti finanziatori.
Nulla dagli insegnamenti degli illuminati “padroni” di un tempo, gli Olivetti tanto rimpianti che della città industriale facevano modello sperimentale di convivenza, lasciandoci città giardino come un patrimonio che cresce nel tempo.
No. Lo sviluppo industriale più recente era solo il facile business di chi stava già nel giro, farsi prestare denaro per investire nel lavoro per poi intascarsi il bottino piangendo un fallimento facilmente presumibile; oppure, nei casi più virtuosi, lo sforzo di chi ci provava davvero per finire però, nel contesto malato in cui era calato, trascinato dalla stessa corrente fallimentare.
Questa la storia della nostra industria recente che ha lasciato in eredità alle città il paesaggio postatomico che non senza ironia definisce di “archeologia industriale” e ai suoi figli un destino da precariato da lunario che non si sbarca, detto con altrettanta ironia “flessibile” come l’arbusto verde che si piega ma non si spezza.
Ma il destino, si sa, è circolare, il raccolto sempre proporzionato alla semina: E così, l’eredità di quella promessa industriale senza identità e senza strategia, da un canto il cimitero di scatoloni abbandonati e dall’altro la generazione di figli in cerca di dimora e futuro, gira e rigira, si sono rincontrati.
Non già per tentare un recupero delle attività in fallimento – che nessun istituto, fondo o amministrazione avrebbe del resto accordato a giovani senza futuro – ma per usarlo come tempio dello sballo per una notte per poi renderlo ai topi e alle sterpaglie e spostarsi altrove, come virus in un corpo influenzato.
Una tournè di disimpegno mordi e fuggi, da un capannone a un altro, rapido rito di una generazione flessibile come è stata allevata, che non lascia tracce, non chiede permesso né entra in punta di piedi, non si incanala nelle regole di un mercato allo sbando né di uno stato civile che, a ben guardare, così civile non è stato.
Invade, come fanno i topi, l’eredità fallimentare dei suoi genitori, riappropriandosene quel tanto che basta per sballarsi nel congeniale scenario post atomico del disimpegno, per poi renderlo ai legittimi proprietari – che poi va a capire bene poi chi siano-.
Che tenerezza quella definizione anacronistica di “rave” ormai anni 90 con cui i pronti censori del costume hanno bollato il rito dionisiaco dei giovani occupanti, che malinconia quelle pattuglie delle forze dell’ordine che aspettano l’alba all’intermittenza blu del lampeggiante come genitori apprensivi gli esaminandi fuori dal liceo, che compassione quei liquidatori che lamentano danni allo scatolone infruttuoso che non riescono a mettere a reddito, piangendo per un portone divelto o un lucchetto forzato.
Non si entra nelle proprietà altrui, e ci mancherebbe.
Non si fanno feste non autorizzate a casa di altri, non si accondiscende al disimpegno illegale fuori da ogni sicurezza, non ci si mostra deboli alle escandescenze dei figli, assolutamente.
Ma, nel contempo, cari tutti indignati, non si raccolgono fiori dai cimiteri in rovina, non ci si aspettano intraprese virtuose dai figli prima viziati e allevati a pessimi modelli e poi diseredati, non ci si crogiola nell’indolenza di intere generazioni private anche del più minimo spazio di movimento.
Ci si tiene ciò che il destino rende, muti, come tanti Fantozzi che, lanciato il boomerang, corrono dentro casa ad attendere che, compiuta la sua parabola, l’arnese torni a bussare alla porta.
Antonio Pizzola
Commenta per primo! "Lo sballo industriale"