Dal fuori di una vacanza, per chi può permettersela è già tanto, su quello scoglio liscio, puntino selvaggio nel paesaggio secco che casca a picco nel mare.
In quella rimanenza di anno che mi viene concessa per risciacquare il cervello, annegarlo nell’oblio del tramonto giusto il tempo di ricaricare le forze, e tornare fresco a reattivo a settembre, pronto al quotidiano
Produrre e Consumare.
E, più raramente, quando manca il consenso per mettere mano ai miei diritti, votare.
Cellula di Pil che mi stalkerizzano sia in calo da che ne ho memoria, produco poco e spendo troppo, indebitandomi -mi rimproverano- e di conseguenza riducendo i consumi, nel giro vizioso che gira e rigira, a un certo punto, rialza lo spread.
Del resto che vuoi fare? lavorare è il principale dei nostri diritti, la base fondante della società e della costituzione, l’unico rimedio all’ansia del vivere.
Ma se il tempo della produzione è costellato non tanto di fatica ma di amarezze e di birilli, nella quotidiana trincea che riprenderà dopo la ricarica, mese dopo mese, giorno dopo giorno, fino al prossimo scampolo di ferie; se è una guerra a più fronti, con i tuoi clienti o i tuoi padroni, i vicini, i lontani, al telefono, dal vero, con gli uffici, con chi ordina, chi non dà o non paga, con l’acqua, la luce, il gas, la monnezza, le tasse, l’inps, i vaccini, il lavavetri, il condomino, il comune, il governo, a chi giova ?
Non sarà anomalo – mi domando nell’ozio (che tradizionalmente è il padre dei vizi) di due granchi che a chele alzate si contendono la femmina – ci sia costantemente qualcosa che non va? ad ogni fase storica un rischio dietro la porta, che, se continuiamo così, ci condurrà dritti dritti a un’apocalisse. Se voto questo, accetto quello, non ascolto quell’altro, consumo a, mangio b, mi curo-non mi curo, dò ragione alla maggioranza o piuttosto mi trincero nostalgico fra i minorati.
Unica chimera, l’unica, è il tempo che resta fra la quotidiana pesantezza e la paventata minaccia di apocalisse, il vero agognato guadagno – a ben pensarci – al netto di tutto: il tempo detto libero (e mai termine fu più appropriato).
Numero piccolo a piacere, frazione minima di giornata che va dal termine della quotidiana trincea al riposo notturno, al sonno ristoratore dell’incoscienza -se non fosse popolata anch’essa dagli stress diurni -.
Nemmeno un attimo al pensiero, all’attivazione del giudizio critico, che ha bisogno di silenzio per valutare dove si nasconda il pregiudizio che ottunde dalla lucidità che distingue. E separa il vantaggio personale dal danno collettivo – che poi, pensandoci un attimo, potrebbe certe volte coincidere-.
Lasciandoci “libero” quel lumicino sprecato nello zapping frenetico fra contatti, a riempire ogni attimo. Per finire a litigare. Si, nel tempo libero litighiamo. Con chiunque, per qualsiasi ragione, come destinati da una parte per azzannarci con l’altra.
Ve lo dico, a vedervi da fuori, buttato sullo scoglio del ruvido nulla a picco nell’infinito, fate impressione: galletti allevati nella stessa gabbia e nella stessa gabbia montati di estrogeni perché si scannino. E tengano distratto il cervello dai pensieri che i galletti non hanno, per non montarsi la cresta.
Se prima tenuti buoni con il quotidiano mangime di buoni propositi e ipocrite indignazioni, i galletti rammollivano a basso PIL, tornano di moda le cattive. Giù duro con chiunque, a turno. Gli sfigati, ovviamente, sempre primi.
Su quello scoglio da tramonto mi raggiungevano scarse eco del quotidiano affannarsi a litigare e poco me le andavo a cercare, nauseato ormai dalla certezza di come cominci e come ogni volta vada a finire.
Non voglio nemmeno sapere chi comanda davvero il mio Tempo, chi me lo sottrae. Mi piacerebbe soltanto, se di promesse debbo campare, che un giorno sarò ricompensato -e su questa Terra- più di questa casella trilatera produci-compra-combatti in cui sto rinchiuso.
Pagatemi di Tempo e io vi voterò e mi voterò a voi.
E vi ricoprirò di Pil.
Antonio Pizzola
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