Lievitazione lenta
Emanuele ha tre anni, i capelli castani e gli occhietti vispi. Sta in piedi su una sedia attorno a un tavolo di plastica. Anche se il più piccolo, pare già un ometto: curioso guarda quello che fanno gli altri bambini e prova a imitarli. Nel mentre si sporca di impasto e farina e alla madre lì vicino non sembra dare alcun fastidio. Dentro ciotole colorate, bambini e bambine lavorano alle loro pagnotte. Hanno meno di dieci anni. Lucia li aiuta con il lievito madre, poi torna a badare al forno. La bocca stretta di mattoni sprigiona un calore denso e lei ci infila dentro tronchetti di quercia che qualche paesano le ha lasciato passando. C’è confusione e allegria. È un caos dove ognuno sa cosa fare. Cristina, Palma e Delia che di anni ne hanno un po’ di più – sono tre madri di famiglia – si sono messe ad impastare al coperto nel piccolo edificio. Su una mensola stretta e lunga lavorano al proprio futuro pane. Scherzano e si raccontano gli ultimi fatti appresi su Facebook e in televisione. Dicono che sono qui per riscoprire i sapori antichi – ovvero quelli del pane delle proprie nonne e mamme – e anche per fare un po’ di sano pettegolezzo.
Siamo al forno comunitario di Villa San Sebastiano (frazione di Tagliacozzo, L’Aquila), una stanzetta spartana di dieci metri quadrati con le pareti imbiancate a nuovo. Qui ogni cosa è di seconda mano: i canovacci appesi alle pareti, le sedie, gli attrezzi per infornare e la mesa tavoja, la tavola per la lievitazione del pane comprata per cinque euro al mercatino dell’usato. Questa comunità laboriosa sta preparando l’infornata dell’indomani. Lucia Tellone, considerata fra le dieci giovani promesse della cucina italiana da Carlo Cracco, è la promotrice dell’iniziativa e dal 2020 porta avanti con devozione questo interessante esperimento di panificazione di comunità, in quello che è il suo paese natale. Il forno era stato abbandonato ed è rimasto chiuso per oltre trentacinque anni. “All’inizio non veniva quasi nessuno – racconta sconsolata – poi l’interesse e l’entusiasmo sono montati velocemente e adesso arriviamo in estate a infornare anche cinquanta pagnotte”. Per le signore che partecipano alle bisettimanali “chiamate all’impasto”, il paese è letteralmente rinato grazie al forno.
Secondo l’antropologo calabrese Vito Teti, restare o tornare a vivere nei paesi “non ha che fare con la conservazione, ma richiede la capacità di mettere in relazione passato e presente, di riscattare vie smarrite e abitabili, scartate dalla modernità, rendendole di nuovo vive e attuali”. I restanti tornano a vivere in paese prendendosi cura dei luoghi. La restanza allora è un nuovo paradigma dell’abitare: serve a non starsene con le mani in mano, a costruire socialità e liberare spazi, prendersi cura di persone e luoghi che ne hanno bisogno, dare nuovo senso all’abitare. Per questo il restare da solo non basta, c’è bisogno di restanza, ogni giorno.
Al forno non ci sono orologi alle pareti e il tempo prende una piega strana: “Non ho potere su niente, decidono tutto brace e farina” commenta Lucia. Non utilizzano neanche il termometro: per capire quando il forno è a temperatura, ci si basa sull’osservazione e l’esperienza. Queste mani che fanno gesti semplici e sapienti non sono le loro. Non completamente loro almeno. Sono anche di chi le ha precedute e allora quelle mani che impastano, sfamano, danno forma, sono anche mani del passato. Si diluiscono nel paese, nelle discendenze, fanno strani incroci. Sono mani che ci sopravvivono – che ritornano – di una sapienza eterna, mai sedata. Mani di una civiltà al tramonto che si ripresenta in forme nuove ma con lo spirito autentico del passato.
L’indomani arriviamo al forno molto presto con un termos di caffè fra le mani. C’è sonno e stordimento tanto che Andrea è convinto sia domenica, ma è ancora sabato. Il cielo lattiginoso con- fonde l’ora del giorno. L’aria pizzica il viso e il sole se ne sta nascosto fra strati di nuvole. Il prato umido circonda il forno. Gli alberi addormentati iniziano un lento risveglio. Lucia è già alle prese con il suo da fare: ravvivare pagnotte, stendere la pizza, controllare brace e calore. Il suo lavoro qui è completa- mente gratuito, anzi spesso è lei stessa a regalare farina e lievito madre. Il lavoro in cucina invece lo ha lasciato nel 2021. Si è presa un anno sabbatico e ha potuto rallentare i ritmi di vita sganciandosi da quelli frenetici del mondo della ristorazione. La vita nelle cucine degli chef stellati è molto faticosa racconta: tanto sfruttamento, stipendi non all’altezza, un generale autoritarismo e un diffuso maschilismo. “In Italia è difficile che un ristorante ti garantisca di lavorare solo otto ore, se ne lavorano molte di più e non vengono pagate – commenta amareggiata. All’estero è completamente diverso, c’è molto più rispetto per i lavoratori e il lavoro stesso è considerato molto più dignitosamente”.
Alla spicciolata arrivano le signore conosciute il giorno prima e si uniscono ai preparativi. Di nuovo l’atmosfera torna conviviale fino al momento clou della giornata: quello dell’infornata. Nel silenzio generale le donne accerchiano Lucia e l’aiutano con compiti precisi. Le pagnotte vengono disposte nella pancia del forno che è stata predisposta ad accoglierle. È il compito più importante della giornata, lo si intuisce dai volti tirati e dalla tensione che aumenta sensibilmente. La lunga pala di metallo infila con delicatezza e precisione le gibbose forme di pane ancora crude. Quando il coperchio di lamiera chiude la bocca di mattoni, le pagnotte infilate sono addirittura quarantatré, un record per il periodo non vacanziero.
Suona la campanella di scuola e i bambini arrivano correndo, sono ansiosi di vedere il frutto del proprio lavoro. Mentre attendono giocano sul prato, le signore scherzano e ridono, Lucia riprende un poco di fiato e Andrea tra una foto e l’altra scambia due parole con il vicino di casa del forno: il tempo dell’attesa diventa un tempo nuovo, liberato dalla virtualità e risocializzato. Poco alla volta vengono sfornate le pagnotte gonfie e croccanti. La pizza satura l’aria col suo profumo inebriante. Qualcuno ha portato la mortadella, qualcun altro da bere, Michel che a una vita in fabbrica o in ufficio ha preferito quella contadina, ha portato la delizia dei suoi formaggi. È ora di pranzo e si mangia insieme. Un paesano che passa in auto abbassa il finestrino e reclama anche lui il suo pezzo di felicità al sapore di focaccia. Non si spreca nulla, neanche l’ultimo calore e a forno spento si cuociono biscotti e fagioli. Sembra di essere al cospetto di una grande famiglia dove governa di diritto il matriarcato.
Lucia interroga spesso i suoi compaesani sulle farine che utilizzano. A Villa San Sebastiano sono in diversi a coltivare il grano antico e autoctono della Solina, come Fabrizio, agricoltore e guida escursionistica, fra i fondatori del consorzio che ha salvato questa preziosa cultivar dall’oblio. Ci illustra le proprietà organolettiche della pianta, il potenziale economico e gastronomico e con un pizzico di orgoglio anche la storia del consorzio che lo vede protagonista. Eppure le persone che partecipano alle attività del forno talvolta si presentano con la farina del supermercato, molto macinata e quindi impoverita. Quando accade Lucia quasi stramazza al suolo, poi sconsolata prende un pacco di farina di Fabrizio e la regala al partecipante, gettando quella industriale nella spazzatura. La comodità ci ha resi incapaci di scegliere, eliminato il pensiero critico, impedito di guardare alla qualità che abbiamo a portata di mano. E allora l’esperienza del forno è anche una pratica educativa e olistica: pedagogia del saper fare, facendo insieme.
In un mondo devoto al consumo e alla crescita illimitata, tornare a cuocere il pane nel forno a legna del paese può sembrare un’operazione turistica o di mero folklore. Invece nelle giornate delle infornate non c’è nulla di estetizzante, nessuna indossa il vestito tipico o recita una parte ben precisa in una sorta di rievocazione del passato. C’è piuttosto la consapevolezza di un ritorno a pratiche comunitarie, percepite come più salutari – per il corpo e per la mente – e capaci di generare nuova socialità. Non ci sono turisti – non ancora almeno – a fare il pane sono i paesani e gli abitanti di seconde case che tornano l’estate. È un servizio ai cittadini, gratuito e che si regge sul lavoro volontario di una parte femminile della comunità. Inoltre in collaborazione con “La biblioteca di Villa”, si organizzano e ospitano anche presentazione di libri, dimostrando di essere ormai un punto di riferimento e un luogo di cultura in senso ampio.
Il forno comunitario allora, mostra ad altri una delle infinite vie di possibilità per i paesi. Un esempio che non risolve contraddizioni e problemi ma che va in una direzione nuova che aiuta ad abitare. L’architetto e urbanista Alberto Magnaghi parla di retro-innovazione per indicare proprio la riattivazione di saperi ambientali che possono riportare in armonia la relazione uomo-ambiente e rispondere ai problemi più generali del cambiamento climatico. Il concetto di retro-innovazione riguarda nello specifico la capacità degli abitanti di valorizzare saperi e attitudini del posto, per reinterpretarli in modo nuovo e socializzato, attraverso percorsi di innovazione socioeconomica – per filo e per segno quanto osservato al forno.
Il sole è al tramonto ed è il momento di ripartire, il nostro tempo si sta per esaurire. Emanuele abbraccia una pagnotta quasi più grande di lui. Lucia gli scatta una foto prima di lasciarlo andare. Gli altri bambini si avviano a casa a piedi, felici e senza genitori, perché in questo paese non si ha nulla di che temere. Anche gli adulti si preparano al proprio ritorno domestico. Con Andrea recuperiamo le rispettive pagnotte, assaporando mentalmente il pane e olio che mangeremo per cena. Per due giorni non c’è stato segno di tristezza al forno di Villa San Sebastiano, si è sfornata serenità ed ognuno è andato via contento. “Vogliamo una vita bella” c’era scritto su uno striscione in una manifestazione mesi fa, e forse è questo che muove Lucia: riportare a casa un po’ di quello che ha avuto dal mondo, rendere alla sua comunità la vita un po’ più bella. “Quando ho lasciato il lavoro – conclude – mi sono presa del tempo per me, ora che ne ho abbastanza lo restituisco agli altri”.
Infinitamente grazie di cuore 🤍
Che bello che vi sia chi riporta a nuova “vita” un ricordo della sana vita paesana, dove ogni paese aveva un forno che accoglieva il preparato impasto delle famiglie contadine che ne era la base della quotidiana alimentazione. Una bella riscoperta non difficile da replicare in questi paesi anche se in soli limitati periodi, il tutto per riacquisire quella cordialità di rapporti interpersonali malamente interrotti dallo sviluppo e dalla civiltà moderna, che ora tanto amiamo ma che anche tanto ci ha tolto.