L’attesa

 

Ne hanno scavato chilometri. Ma non come quelle che si fanno sulle strade appena piove, almeno un metro e mezzo più fonde e larghe. E ci si sono infilati dentro, dimora obbligata per tre anni, solleone, pioggia, neve e fango compresi nel pacchetto, tanto fango da farci castelli uguali a quelli veri, coi fossati e i coccodrilli.

Non l’ostello, nemmeno il più disagevole, di un erasmus, non un sotterraneo umido sulla Tiburtina, una cameretta da dividere con fratellino che gli puzzano i piedi. Nemmeno una cella del 41 bis, per quanto inumana possa sembrare pure a un pluri-omicida.

Roba seria.

Ci mangiavano, dormivano, defecavano, ci si ammalavano, ci cadevano feriti, ci raccoglievano i morti, ci scrivevano ai parenti. Ci leggevano le lettere delle donne che speravano restassero, nell’attesa, ad aspettarli.

Ma tutto, rigorosamente, nel mentre.

Sì perché la maggior parte del tempo dentro quelle trincee di merda era il mentre, l’attesa.

Interminabili anni contati per minuti, ore, giorni, mesi. Ogni tanto una licenza, giusto per assaporare cosa avrebbe potuto aspettarli se si fossero sbrigati a terminare il lavoro al fronte, a finire i nemici intendo nel numero. Tutti.

Perchè la prospettiva che si delineava alla fine di quell’attesa non era un sabato sera del villaggio con il petto e il crine delle donzelle, non uno spritz che fosse esso stesso il piacere. Nemmeno la notizia di un lavoro per quanto precario e micragnoso ci getti nello sconforto, o la Wind che ci lascia senza linea per giorni. La Borsa che manda su lo spread o una maggioranza incerta che fatica a formare un governo.

Neanche il vuoto, quello esistenziale che getta nello sconforto i più pipparoli fra di noi, pretendendo l’aiuto di specialisti, farmacisti, confessori, erboristi o guru.

Quelle robe insomma che a noi fanno sentire sfortunati, irrealizzati, immiseriti, piagnucolosi, atterriti, apocalittici, infelici.

 

Per loro si trattava di sparare o riceverne, fucile di qua contro fucile di là. La fine solo all’ultimo birillo, tipo al bowling per vincere un’altra palla, eliminare tutti gli altri a meno che non si arrendessero. Con l’unica alternativa, terminare l’attesa finendo prima che fossero finiti loro.

Ho letto che uno dei natali della Grande Guerra tedeschi da una parte e alleati dall’altra raggiunsero una tregua, senza che gli fosse ordinato, anzi nonostante. Una notte di festa come se non fosse successo niente, come se quell’assurda vita fosse il gioco dopo il panettone, a ubriacarsi, a guardare le foto delle donne lasciate a casa, – che nel frattempo, nelle catene di montaggio della patria, fabbricavano le armi e mandavano avanti la baracca-.

Furono puniti appena la notizia arrivò agli stati maggiori, troppa gioia condivisa distraeva. Per tirarli su durante quell’attesa infinita ed eccitarli così da aumentarne la produttività in prima linea, cominciarono a far girare anfetamine. Ho letto di soldati che nel ghiaccio russo perdevano gli arti in necrosi continuando la marcia senza accorgersene, talmente erano imbottiti.

 

 

Mio nonno, come tanti dei nonni, ebbe l’invidiabile ventura di farsi tutte due le grandi guerre. Pensa che figo, mi dico quando ci penso, tornare dopo anni finalmente da quel calvario di fango nell’orticello sperduto fra i monti dove l’erano venuti a pescare come un portachiavi  la gru di una giostrina, giusto il tempo di riabituarsi al silenzio di prati e pecore che dovevano sembrargli il paradiso, e poi zac.

Di nuovo, si riparte. Saluti, valigia, divisa, scarponi, spari, freddo, morti,  in Abissinia, in Grecia, Albania. In Russia, a meno venti.

Ci penso ogni volta che mi viene una banalissima influenza, quando ogni secondo che mi separa dal tumularmi nel letto caldo è un dramma, ogni ostacolo che si frappone un bersaglio che calpesterei pure se fosse il l’affetto più caro.

 

Mio nonno non parlava mai, se non raramente con il suo asino: il silenzio è tuttora il ricordo più rappresentativo che ne conservo, quello che mi rende la misura di un senso ogni volta che mi lamento.

Perché il suo non era un silenzio piagnucoloso, annoiato, stanco o depresso come i nostri, -le rare volte che stiamo zitti-. Non gravido di pensieri bui per il futuro apocalittico che paradossalmente a noi, e non a lui, annichilisce e angoscia.

 

Era piuttosto  meravigliato, attonito e smarrito per quanto aveva visto e vissuto, da non lasciare alcuno spazio all’immaginazione, per quanto nero o più roseo potesse aspettarsi un domani.

Che certamente, sperimentata l’attesa di un termine che non ammetteva altro che la fine, non voleva o non riusciva riviverne ancora. Aspettarsi niente, che ogni volta che ci aveva creduto gli si era rivelato un boomerang.

 

Il suo silenzio, insomma, era un diritto alla pace.

 

Noi no, raga’. Non ce lo possiamo permettere, non ne abbiamo maturato i punti, tutto considerato e immaginato non abbiamo i bonus per stare appesi.

Ci tocca la fatica, quella minima, ordinaria e di default, della vita, con la benedizione -grazie a tutti gli dei del pantheon celeste- che ci ha detto lusso di permetterci un’attesa.

E la possibilità -e quindi il dovere- di scegliersi di cosa.

 

Antonio Pizzola

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