L’anarchia della loffa

A un certo punto delle feste natalizie arrivava il momento.

Cominciava la mattina presto, quando la casa si svegliava nel puzzo acre del lardo battuto, buttato a schizzare in padella, quasi ad avvisare il vicinato, come le campane a pasqua, dell’evento imminente.

In quel soffritto che il fegato cominciava ad annusare nell’aria come il condannato al patibolo il friccichio della sedia elettrica all’alba dell’esecuzione, ci sarebbe caduta la salsa delle buttije fresche di fattura, le spuntature del porco trucidato dal compare roccolano e i suoi insaccati di interiora, a ribollire a fuoco lento  per condensarsi in un’amalgama rosso sangue su cui  galleggiavano episodici, canottini di grasso.

Nel cutturo a fuoco lento, intanto, grande a seconda di quanto la nonna si fosse allargata in generosità di inviti,  si alternavano i sacerdoti del mescolio, nessuno escluso, se voleva aver diritto al suo trancio. Nemmeno io bambino ne ero dispensato,  mi attorzavo le maniche con le orecchie già violacee al calore dantesco della stufa a legna, a cerchi concentrici in ghisa.

 

Gira, era l’ordine, finchè non fa la loffa.

 

A metà mattinata cominciavano a bussare zii e cugini, festevoli pastorelli col loro dono di verdure al bambinello, ovviamente fritte, tanto per preparare il povero fegato, ormai rassegnato,  alla doratura nell’olio di semi anni 70, tossico come una fuga di diossina da comiso.

Il Montepulciano spettava allo zio burlone, dispensato per questo dalle fatiche preparatorie, nella riprovazione dei più che si aggiravano famelici nell’attesa come iene attorno alla carne ribollita. Il vino, commentavano stizziti, con la polenta fa acidità, cosicchè, per non rinunciare all’ebrezza alcolica, lo zio burlone avrebbe procurato dal pusher farmacista il bicarbonato e l’idrolitina in bustine, a ravvivare di bollicine gassose il povero fegato riottoso.

 

Gli estranei alla famiglia strettamente intesa erano comparse collaterali, compari, comari e prossimi dai quali attendersi la giovinotta fresca di maggiore età per lo zio farfallone che a un certo punto, ebbro furore bachico, si sarebbe lasciato sfuggire l’ occhio pendulo nella scollatura generosa o la mano moribonda sulla mini a fantasie pop, regalo del parente re magio migrato oltreoceano.

Lo spianaturo, memoria dei vecchi tavoloni di famiglia che nell’era industriale si erano evoluti in multistrati e tranciati, wafer in legno sprigionanti veleni di formaldeide, era già pronto a tavola.

Lo zio farfallone, già al quarto bicchiere, tronfio del muscolo maschio da mostrare alla giovinotta, sollevava il pesante cutturo indifferente al manico arroventato, per riversare la lava bianca e grumosa sul desco. La nonna, matriarca in un meridione da dopoguerra avaro di nonni, avrebbe pensato a distribuire uniformemente salsa, carne e pecorino, assegnando  i tranci con giustizia salomonica  in triangoli rigorosamente perimetrati col coltello.

Attento, era il dictat, non travalicare il confine assegnato  e non lasciare la cordolatura perimetrale, lasciata scondita ai margini per non far tracimare la salsa. I bambini africani avrebbero sofferto pene atroci solo al pensiero del privilegio di quello sdegno, che io, disubbidiente come un brigatista rosso di sugo, avrei di soppiatto fatto scivolare sul tovagliolo poggiato sulle gambe.

Al buon appetito il via.

Dopo un’oretta lo spianaturo appariva come la valle dell’Isonzo post caporetto, con le strisciate di salsa penetrate nel legno e le ossa di costatine abbandonate sul campo, dalle iene appanzate che intanto ridevano scomposte di ricordi familiari. Finchè lo zio, a corto di barzellette zozze, avrebbe finalmente intonato a gran voce, stringendosi alla giovinotta fino a strizzarle le tettone, e la bella gigogin trallerillerellillellero.

Il Rito era compiuto. I commensali si sarebbero sparsi nella casa, i maschi appisolati rumorosi su giacigli di fortuna, le donne, ripuliti i resti e usciti ceciripieni fritti e scarponi di mosto cotto e noci per dare un misericordioso colpo di grazia al fegato ormai capitolato, apparecchiavano le lenticchie crude e le cartelle per il tombolone pomeridiano.

Ne approfittavo per guadagnare  il bagno e gettarci il cordolo di polenta scansato, approfittando del letargo che ammansiva gli astanti, giusto un attimo prima che lo zio bussasse il suo occupato?, in ansia per scovare l’anfratto più a prossimo in cui benedire l’ingresso in società della giovinotta strabordante di serotonina.

 

La polenta nel meridione più impervio non era un semplice pasto, ma un rito.

Serviva ad espiare la catarsi delle escandescenze più inconfessabili, che si ricomponevano nel friccicore del bicarbonato post prandiale per rappacificare tensioni familiari dell’anno alla fine o generarne di nuove,  per l’anno venturo.

In quel rito io bambino imparavo le regole, il confine del lecito, la fatica del prima e la spettanza di piacere. Per scoprire, nella ricerca della montaliana maglia rotta nella rete delle regole che mi avrebbe consentito una salsiccia in più, la mia genetica natura montanara.

Che non era fascista, non era comunista, né democristiana, ma solo sfacciatamente anarchica, contro la legge del potere matriarcale. Come solo Carlo Tresca, insigne  predecessore conterraneo certamente appassionato di polenta, con quel rito popolare mi avrebbe tramandato.

 

Antonio Pizzola

 

 

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