Quando l’Aids cominciò a diffondersi ero matricola al liceo.
Con età sufficente per andare al cinema dove davano la Febbre del Sabato Sera, vietato ai minori: quel ragazzotto italo americano di periferia con i pantaloni a zampa e la camicia sbottonata sulla catenazza d’oro che aveva inventato il rito del week end, era il mio idolo trash.
Avrei avuto anch’io una ragazzina per fare le cose che faceva Tony Manero, in bilico fra sentimenti e scompostezze, eccitanti quanto il basso di Disco Inferno che rimbombava nello stomaco le sere al Charlie’s, il dopolavoro ferroviario sulmonese trasformato nella versione peligna dell’Altro Mondo Studio’s riminese.
Intanto il mondo adulto si popolava di mostri e paure.
Il virus che consumava lentamente le sue vittime trasformandole nel fantasma di loro stesse non si sapeva ancora come si diffondesse. Si diceva la saliva, il contatto, i comportamenti contronatura. Il bacio, oltre al sorso nella stessa cannuccia, era il serial killer spietato che uccideva l’amore, dimostrando, diceva il papa al tempo buono, che i sintomi di quella febbre settimanale d’oltreoceano erano prodotto di Satana.
Il virus il suo strumento di morte. Un umano si era accoppiato con una scimmia africana, si diceva, e pure se ora fa ridere al tempo la storiella non era meno credibile di un cinese che mangia un pipistrello in un mercato cinese.
Proprio ora che avrei dovuto incontrare la mia metà di giochi adolescenziali, Satana si svegliava dalla sua bara nel fondo dell’inferno per rovinarmi la giovinezza.
Quell’estate passai le vacanze a Montesilvano, il pezzo di costiera romagnola in Abruzzo fabbricato negli anni 70 per il prorompente turismo di massa, dove frotte di ragazzine scendevano a esplorare le prime impellenze ormonali che il papa diceva maligne.
In tv la pubblicità progresso raccontava di minacciosi aloni viola che si accontentavano di uno sfioramento per inglobarti come nella riproduzione degli organismi monocellulari del secondo capitolo di scienze. I complottisti di allora, che contrariamente a oggi erano quelli fighi, ci avvisavano che l’aids come prima l’eroina erano gli strumenti con i quali le sette sorelle stavano falcidiando la generazione del dissenso.
Io non capivo di complotti né di sorelle, tutte le mie risorse erano concentrate nella sedicenne dell’appartamento a fianco, della quale avevo convinto il papà con faccia da secchione che poteva darle ripetizioni di latino, per poterci uscire la sera. Veniva da Roma, aveva gli occhi etruschi, i capelli da lupa ed era dello Scorpione e, prometteva la compagna di scuola astrologa, sacerdotessa di giostre mirabolanti.
Da un lato le cannucce proibite, i baci assassini, gli aloni viola e i preservativi che le farmacie allora non vendevano ai minori, dall’altra le turgidezze etrusche della Scorpioncina.
La guardavo uscire di casa per raggiungermi alla panchina sul lungomare e cercavo di intravederle attorno l’alone viola che avrebbe potuto fagocitarmi in pasto al vorace Satana, se non fosse che un vestitino pudico e una scollatura a bottoncini dorati mi distraeva dalle paure, generandomi quell’eccesso di saliva che mi confondeva il cuore e non solo.
Una sera mi propose di lasciare il gruppo di amichetti e volare in vespa fino a Torre Cerrano a guardare il mare nero, ai tempi in cui nessuno si sarebbe sognato di sorvegliare il mare per impedircelo. Ci sedemmo sulla riva umida e io presi a farla ridere, perchè avevo sentito da compagnucci più avvezzi che le ragazze prima amavano ridere.
Poi a una certa sbucò la luna a illuminarmi la fila scomposta di bottoncini dorati mostrandomi gli slip a roselline coronato da un merletto bianco da cui si affacciava una rada peluria nera come il mare di Cerrano. Una forza sconosciuta mi spinse sulla sua bocca fruttata di burro cacao, terrorizzato da Satana che speravo distratto altrove.
Sapevo che sarei dovuto finire giù, a baciarle il merletto bianco per sbalordirmi davanti a quel frutto dalla polpa succosa che Neruda raccontava si bagnasse e bruciasse come una lanterna rovesciata nella pioggia.
Solo un attimo di esitazione per passare in rassegna le immagini dei poveri infetti che non si erano saputi trattenere e che ora si disfacevano sotto i colpi di Satana feroce e spietato.
Fu allora che mi chiese sussurrando accaldata e rossa in viso se avessi il preservativo.Dove diavolo sarei andato a procurarmi quella benedetta bustina in lattice che peraltro non avrei saputo indossare? Risposi no. Le chiesi se voleva mi fermassi, forse l’alone viola, la cannuccia, il papa, la scimmia…
Lei mi zittì spingendo la mia testa riccioluta fra le sue gambe di ebano e pesca e io, come un Adamo stupidito dalla mela, discesi nel gorgo del Disco Inferno battendo il cuore a 120 bpm.
Venne in mio soccorso a fugarmi ogni tentennamento il mio poeta preferito che dalla collina di Spoon River raccontava il malato di cuore che non avrebbe potuto permettersi le emozioni di un amore, ma che fra una vita di precauzioni e un battito di vita scelse l’attimo fuggente.
“ma che la baciai perdio si lo ricordo ed il mio cuore le restò sulle labbra”
Antonio Pizzola
tira più un pelo di sticchio che un autotreno di Pfizer
Bellissimo….un po’ di leggerezza ogni tanto…. in questo clima cupo da ultimi giorni di Pompei per una campagna elettorale che si preannuncia più scialba che mai……
forse è proprio così, dovremmo recuperare un pò di leggerezza nel considerare le cose, gli altri, se stessi