Come ogni neonato, sono venuta al mondo sgambettando. Lo facevo per accompagnare il ritmo del pianto, alleviare il dolore delle coliche, farmi notare e togliermi le coperte di dosso, in quel lontano e caldo settembre.
Qualche mese dopo, seduta nel passeggino, mi prendevo i piedini con le mani e li portavo alti nel cielo o in bocca, a seconda dell’umore e dell’elasticità del vestito.
Il tempo trascorse e, come tutte le ragazzine della mia generazione, ho adorato Heater Parisi: “Cicale cicale” era per noi un inno da ascoltare non con la mano sul cuore, ma con la gamba ad almeno settanta gradi alzata dal pavimento.
Alle scuole elementari, mentre i maschietti tiravano i calci al pallone, noi femminucce lavavamo i fazzoletti per i poveretti della città, facevamo un salto e poi un altro e baciavamo chi volevamo noi, dopo aver guardato in su e in giù in segno di approvazione. Romina Power ci insegnò il primo ballo di gruppo: quello del “qua qua” e poi arrivò Claudio Cecchetto con il “Gioca Juer”, antesignano dell’attuale zumba.
La maestra Suor Angela, contrariata, avrebbe voluto ancora farci lavare tutti i fazzoletti della città, ma noi scalpitavamo: le medie erano vicine, avevamo voglia di ballare ritmi più sfrenati e la lavatrice era stata inventata da diversi anni.
Finalmente mia madre mi iscrisse ad una scuola di danza classica, smisi quindi di ballare e cominciai a danzare. Stendi le punte, volta le gambe, alza i gomiti e drizza la schiena, con lo specchio grande come una parete a rivelare che non andava mai bene, che bisognava fare meglio, sudare ancora di più e probabilmente cambiare attività sportiva, tornando a lavare quei fazzoletti per i poveretti della città.
Le coreografie diventavano sempre più difficili, gli insegnanti esigenti e lo specchio diabolico. Certi giorni avrei voluto lasciar perdere tutto e tornare a “Dormire, salutare, autostop, starnuto”, oppure a mettere i piedi su quelli di mio padre, come facevo da piccina, lasciando che a guidare il mio ballo fosse lui, che non sbaglia mai un passo e sa sempre cosa fare.
Con gli anni capii che, invece, era proprio la fatica della danza a rendere più leggiadro il ballo e che il rigore di questa nobile arte, con la matematica dei tempi da seguire, la fisica degli equilibri da trovale e la geometria degli spazi da rispettare, rendevano la mia coreografia più libera e vera.
Una volta imparato a danzare, la musica non guida più i nostri passi, ma entra nell’anima, suonandoci come strumenti: ci percuote, pizzica e soffia; facendoci vibrare, saltare e roteare nella stanza, finché un vaso si rompe o uno stinco sbatte rovinosamente sullo spigolo del letto. Oppure fino a quando una voce acuta ci chiama perché è pronta la cena o il vicino di casa viene a lamentarsi per i tonfi sul soffitto nell’ora della siesta pomeridiana.
Quando balliamo così, possono guardarci con disappunto perché disturbiamo o perché abbiamo scelto il luogo e il momento sbagliato per farlo, ma nessuno potrà mai dirci che non siamo brave, perché una melodia sta suonando il nostro corpo, rendendoci felici e quindi anche brave.
In certi periodi della vita, ci sembrerà di aver smesso di danzare, perché gli anni sono volati, un paio di ossa ci dolgono e qualcuno ha spento la musica, ma in realtà non smetteremo mai di farlo: noi viviamo ballando. E si vede.
Si vede da come ci muoviamo, da come cambiamo direzione quando camminiamo, da come ci voltiamo se sentiamo pronunciare il nostro nome, da come scendiamo le scale e dall’inchino che accenniamo quando ci fanno un complimento.
Si vede da come ci rialziamo dopo una caduta disastrosa; da come aspettiamo pazientemente il nostro turno dietro le quinte; da come rimaniamo ferme in posa anche se nessuno ci sta guardando; dal nostro sguardo felice verso il sipario che si chiude, perché sappiamo che presto si alzerà di nuovo, anche se non per noi.
Si vede da come brilla il sudore sul nostro corpo; da come indossiamo i costumi di scena anche se non ci piacciono; da come scrolliamo le spalle quando non ci importa più; da come guardiamo in alto per ricacciare indietro le lacrime, dal sorriso che regaliamo al pubblico anche quando tutto va male.
Si vede dalla grazia con cui abbandoniamo la scena; dalla naturalezza con cui passiamo dalla prima all’ultima fila: dall’essere protagoniste e poi comparse, aiuto scena, suggeritrici, mascherine e infine spettatrici.
A goderci finalmente lo spettacolo.
gRaffa
Raffaella Di Girolamo
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