E’ bella Bibi con il viso lungo dai lineamenti marcati, tipico delle donne medio-orientali; lo noti subito anche se ha appena partorito.
Non capisce e non parla la nostra lingua, non riusciamo a comunicare neppure con i gesti nonostante noi Italiani siamo bravissimi, perché non capisce neppure quelli, come il pollice alzato per dire che “va tutto bene” .
Eppure appena sono entrata nella sua stanza, dopo tutto il frastuono intorno alla nascita della sua bambina, il suo sguardo mi ha agganciato immediatamente, la sua bocca si è aperta in un sorriso e le nostre anime sono entrate in perfetta sintonia. Soltanto con gli occhi mi ha comunicato che non si sentiva molto bene e, finché siamo restate sole, questo flusso di invisibili informazioni è rimasto inalterato. La magia si è rotta quando sono entrate altre operatrici sanitarie: Bibi pur mantenendo un atteggiamento di mitezza si è ritirata e quello sguardo vuoto è tornato su di me soltanto per pronunciare una parola “Noor”, il nome del mediatore Afghano della Croce Rossa che ha accolto la sua piccola tra le braccia come se fosse il suo papà, con la stessa emozione.
Noor è il suo ponte tra il mondo di ieri e quello di oggi, l’unico uomo di cui si può fidare, l’unico che può metterla in contatto con un universo sconosciuto. A lui l’hanno affidata i suoi genitori e i suoi suoceri, lui conosce il dolore profondo che le sue ferite suscitano, lui capisce fin dove si può invadere il cerchio di protezione di una donna Afghana.
Bibi ha 30 anni ma non può o forse non vuole decidere della sua vita né di quello che può o non può raccontare, neppure se lontana dal suo Paese; per farlo ha bisogno del consenso dei capi famiglia, genitori e suoceri.
Stava male il perché aveva qualche decimo di febbre perciò una operatrice istintivamente sposta una maglia che le copre il capo… Gli occhi della donna diventano di ghiaccio nel tentativo di nascondere il rancore per quel gesto, perché lei quella maglia la sta usando da quando è arrivata come velo per nascondere i suoi bellissimi capelli ricci e neri.
La storia di Bibi ormai la conosciamo tutti e la nascita della sua piccolina sta facendo il giro delle testate giornalistiche ma quanti, dietro a tutto questo parlare, si sono chiesti veramente quali fossero le necessità, non solo materiali, di questa giovane mamma Afghana? Potremmo dire di aver raggiunto noi donne la vera emancipazione, la vera libertà soltanto quando sapremo incontrare gli occhi di un’altra donna e da quelli iniziare un dialogo profondo improntato al rispetto, alla delicatezza alla comunione di intenti e sentimenti.
Da questo dobbiamo ripartire noi donne libere imparando ad usare la nostra libertà di parlare, ridere, lavorare e decidere, per fermarci a riflettere sulle motivazioni profonde e radicate di quel velo che per essere tolto non è sufficiente il gesto leggero di una donna occidentale.
Bibi non ha più il marito ma non è e non sarà mai sola perché a Roccaraso ci sono tutti i suoi parenti che la aspettano e tra i quali finalmente lei si sentirà libera di vivere.
Riporto un estratto di una intervista ad una attivista del CISDE :
“Le donne afghane sono forti. Ho davanti agli occhi una donna che ha appena partorito in un Ospedale di Kunduz dopo un assalto talebano. E’ in un letto sfondato, coperto di frammenti di vetro, riflettono la luce tutto intorno a lei, bagliori verdi e macchie di sangue. Cerca di alzare il piede per non ferirsi. Intorno è tutto crollato ma lei è serena e il marito stringe con tenerezza il piccolo”.
Non sapremo se Bibi sarà mai pienamente felice ma sicuramente è una donna forte.
Auguriamo a Hyna di crescere come una donna occidentale, senza mai dimenticare le sue origini ma da queste imparare il rispetto, la tolleranza, la forza, la difesa dei propri diritti.
Buona vita Bibi e Hyna…
Gianna Tollis
…perché non provate a lasciarla in pace…senza cercare di “interpretare” gli sguardi che agganciano o che diventano glaciali…
Appunto, razzismo di invadenza assoluta.