La notizia della riapertura del glorioso Liceo Ovidio, dopo decenni di promesse, burocrazie e ritardi, restituisce alla città oltre a un semino di fiducia, il fondale prospettico di Piazza XX alle spalle del bronzo ovidiano.
La retina grigia dei tubi (non a caso detti) innocenti, che ne ha occluso per lustri la visuale, intristiva la cittadinanza che sentiva aver perso il riferimento scenografico della passeggiata domenicale. Proprio lì dove il Corso, fin qui angusto, apre lo sguardo al disegno a corolla del selciato verso l’austero prospetto novecentesco, del Liceo Classico, vanto della cultura locale, e dello storico Gran Caffè, poetico ricordo collettivo dei tempi d’oro, l’elite peligna intrecciava strategie, discussioni, gossip, relazioni, pensieri, parole ed omissioni, con la congestione dei piedi nella neve rappresa.
Per chi passeggiando per il Corso ammirava, avversava o invidiava stazionatori e stazionatrici della piazza, quella facciata rappresenta la scenografia ai ricordi. Va da sé che chi abbia vissuto quella stagione, ami, fosse pure inconsciamente, quella scena, come si ama uno scorcio di casa, una nicchia segreta, una finestrella romantica o una gronda stortignaccola, solo perché dà sfondo alla vita e materia alla nostalgia.
In realtà quel palazzotto urbano, dalle mire architettoniche modeste e dal profilo serioso ma per niente autorevole, nacque come rimedio all’ennesimo terremoto che aveva fatto crollare il preesistente più antico. Edificato in ritardo nel 1925, già fuori sinc rispetto ai suoi tempi, troppo presto per anticipare le avanguardie artistiche che in quel ventennio sconvolgevano il mondo, il pensiero e le sue creazioni, ma ormai demodè per corrispondere al trionfalismo accademico umbertino, che si ostinava a glorificare ad libitum l’unità raggiunta nel secolo precedente.
L’hanno definito non a caso stile eclettico, non si saprebbe come altro classificare quell’accozzaglia di resti del passato lontani nel gusto e nella storia, giustapposti a sentimento, a rappresentare un prestigio ormai macchiettistico e un classicismo ormai depredato. I portoni balconati, sdoppiati come a non voler sminuire nessuno, un’imitazione maldestra e sbiadita dei portali patrizi; i bugnati a conci fuori scala e le pesanti mensolone da castello medioevale, i timpani e le finestre simil settecenteschi ristilizzati e spaccati a metà, come a bestemmiare, non senza una certa superficialità, alla classicità che volevano richiamare. E, sopra il cornicione infiocchettato di tegole, l’edicoletta simil votiva ad altana, a proteggere il Sacro Orologio, simbolo dell’accelerazione del Tempo verso l’ambizione di progresso di un Dio Kronos da venerare e temere.
Con quel mix di retorica monumentale, manierismo nostalgico, gusto militaresco e ammiccamenti fascisti, furono costruite tutte le scuole del regno, con le aule agorafobiche in batteria tinte scure a zoccolo, gelide e incupite come certi impiegati dei racconti di Svevo, se non di Kafka, ideali per allevare in competizione tanti soldatini per la patria, coi grembiuli rigorosamente neri e i candidi fiocchi bianchi strozzati al collo.
Il Fascismo del Ventennio, contrariamente a quanto fece per poste, palestre, stazioni, terme perfino pompe di benzina, in avanguardistico stile razionalista a dimostrare la modernità del regime, per le scuole si limitò a ritoccare il modello sabaudo: ci assiepò squadre di piccoli spartani che chiamò Balilla, come i rossi e i blu nel biliardino del calcetto omonimo, in piedi quando entrava il Maestro, che, come un mini duce da cattedra, ad ogni disubbidienza bacchettate alle mani e in ginocchio sui ceci.
La scuola italiana non conobbe mai un’educazione al libero pensiero, nemmeno con la democrazia, che si espresse in fatto di scuola solo coi pessimi tentativi di istituti professionali sforna tecnici per l’industria già in crisi, che ci ha lasciato in eredità scuole-capannoni da nuclei industriali, grigi, degradabili e spesso tossici, eternit e alluminio anodizzato a piovere.
Va da sé che un povero studente di oggi, fra il degradato International Style dei poveri e la Retorica di Regime riammodernata, scelga la soluzione più confortevole, fregandosene della retorica e del regime. E ne appaia, o se ne professi, felice.
Perché mai, viene da chiedersi, essere felice di rientrare in una vecchia cariatide rimbellettata che non gli somiglia affatto, già anacronistica per il trisavolo che l’ha costruita, il bisnonno che l’ha abitata, i genitori che l’hanno vista degradare e chiudere. E’ di impostazione fascista, non dimentichiamolo, la scuola dei banchi in batteria, i corridoi olimpionici, la sala palestra giù di sotto, le aiuole recintate, i bassorilievi baffuti: la scuola non gli corrisponde da tempo, ormai uscita dalle aule, fuori, anche se non sa dove e verso dove.
Rinchiuderla lì dentro serve ai padri che la vorrebbero occasione di rianimazione della cittadina perduta, non certo agli studenti che dovrebbero farsene carico per recuperare un tempo che non è mai stato loro.
Lasciamo loro uno sguardo da altri punti di vista, una visione che non gli abbiamo mai insegnato e una scuola dove allargare, non tappare, gli orizzonti.
Ai padri nostalgici del tempo perduto resta la riacquisizione del fondale, poco importa se di reale valore artistico, della piazza da tornare ad abitare e delle cartoline per i turisti.
Antonio Pizzola
Antonio, te lo dico in amicizia, il pezzo è mooolto intelligente ma totalmente fuori squadra!
E su una cosa hai perfettamente ragione: restituire quell’edificio storico alla pubblica istruzione rappresenta il fallimento di tutti coloro che, non solo in Città ma anche fuori, hanno tifato per il suo definitivo abbandono!
A noi invece, piace e commuove ancora…
Elisabetta, intendevo solo che è l’affetto o la nostalgia a farcene sentire l’assenza, non certo il valore artistico-architettonico. Ma, proprio per questo, a me pare egoistico da un punto di vista generazionale, pretendere che quell’edificio a cui siamo affezionati per come lo abbiamo vissuto, debba essere restituito come scuola ai liceali di oggi. Evidente che rispetto agli scatoloni in cui gli studenti sono stati sbattuti, la ristrutturazione lo abbia reso certamente più confortevole ma allo stesso tempo non possiamo chiudere gli occhi davanti a un sistema educativo anacronistico e inefficace. Credo necessario il distinguo fa quanto la ristrutturazione abbia restituito alla città e l’opportunità di metterci il liceo. Sono di mondo e so bene che quanto scrivo pecca di utopia a buon mercato, nessuno si interesserà mai agli spazi che dovranno abitare gli studenti del domani ma è altrettanto vero che la retorica nostalgica di chi saluta questa ristrutturazione (elefantiaca e zeppa di ostacoli burocratici di lana caprina) qualcuno la doveva pur rilevare. Chi ha tifato per il definitvo abbandono mi è estraneo per principio.