Geiàr

Entrate, coccodrilli.

Ci accoglieva nella sua taverna seminterrata che sembrava attraversare la valle per intero, aprendo l’immaginazione di noi matricole a segreti lussuosi in quel dedalo di porte chiuse, che si intravedevano dal divano.

In vestagliona da camera a quadri svedesi e telecomando oversize, puntava al maxischermo smisurato, più grande – avremmo commentato – di quello di Sant’Antonio, il cineforum di parrocchia dove eravamo stati costretti senza altri cinema, per tutto il liceo.

Ci eravamo presentati con un quadrifoglio stilizzato a losanghe, spacciandoci per grafici di tendenza (perchè un amico comune aveva avuto un Commodore 64) e stalkerizzavamo a tappeto l’emergente yuppismo cittadino per vendergli qualcosa, marocchini di logo, insegne, merchandising, testi, fotografie, ‘a fra’ che te serve.

Lui lo avevamo braccato a piazza Carmine, aspettandolo liberarsi davanti la sua banca del nucleo di mosche che gli ronzavano attorno, per tirargli fuori a sorpresa il marchio della sua immobiliare: una casetta in outline, tipo fumetto lagostina, con dentro le iniziali, vergogna estetica che mi risale dallo stomaco quando mangio pesante.

Lui lo guardò, ci guardò e disse: mi piace, coccodrilli. Vi aspetto dopo pranzo a casa mia.

Fu un attimo e ci ritrovammo lanciati in un vortice senza fondo di cui non ricordavamo l’inizio nè intravedevamo il finale ma che, nel farsi, era per due ventenni come noi, affamati di postmodernismo, il futuro dei balocchi, proprio qui, nella sperduta valle di Heidy dove fino a ieri si e no si prendeva raidue. Narrava di meraviglie a da venire, centri commerciali a forma di iniziali, città di villette per tutti, squadre di calcio invincibili, sindaci svegli che gli stavano dietro e, per noi, un intero sogno a piacere e a disposizione.

A noi immaginare, a lui tirare fuori dai pantaloni calati sotto la pancia da Babbo Natale, il rotolone di centomilalire con l’elastico:

Allora, coccodrilli, quanto vi serve?

Chi era quel signore con la chioma ingellata che sul comodino aveva il mito del Cavaliere, astro del nascente del Biscione brianzolo, un logo un destino?

Era invidia o ammirazione il soprannome che la città gli aveva tributato, paragonandolo al più malefico petroliere della storia delle soap televisive, JR. O, più propriamente, Geiàr, come tutti, accoliti, dipendenti, consulenti, politici, avvocati e giudici lo chiamavano.

Credere a chi lo malediceva, furfante arricchitosi sulle spalle di tanta gente perbene, fregata in poche mosse, o ai sostenitori agognanti il banchetto che lo promuovevano e promettevano mecenate e nascente astro-biscione peligno?

Una domenica ci portò in un capannone freddo pieno di bidoni di vernice, raccontandoci, mentre s’arrampicava maldestro su gradini di fortuna accendendo magnotetermici, che i nemici non volevano fargliela aprire, ma che JR non lo fermava nessuno.

E, aprendo una porticina di lamiera: sbaaam,

Ci apparse davanti gli occhi una televisione.

Non il ricevitore televisivo, no, proprio un’emittente sana, con le telecamere ultimo modello, la regia, i microfoni, le giraffe, i gelati, le luci, gli uffici, i camerini, le sale di ripresa e, giù di sotto, una radio pronta ad andare in onda.

All’ingresso, sopra la reception in legno frassino, il quadrifoglio a losanghe con la palla al centro che gli avevamo disegnato noi.

E mentre illustrava, aprendoci le porte in tamburato odoroso di laminato, quel posto si popolava, reclutando dai dintorni una folla di neococcodrilli di fresca fattura per fare quello che dovevamo imparare a fare noi, “un’informazione in video, giovane, moderna, professionale, senza peli sulla lingua, mai vista in tutto l’Abruzzo”.

Il terrore, per questa melma da coccodrilli al potere, quelli giù nel fossato.

In dieci anni dentro quella televisione ci passò una selezione di un’intera generazione che poi si è sparsa nel mondo, spesso approfittando di quell’improbabile, eccitante, picaresca esperienza di lavoro collettivo con una tecnologia ancora artigianale, ma educativa per entrare nel professionismo dell’era digitale: professionisti, giornalisti, registi, manager, artisti, o semplicemente brava gente che ne conserva un buon ricordo.

Non è stato il migliore editore di quegli anni, né forse l’imprenditore più vincente, non ha seguito l’escalation vertiginosa del suo idolo, ma certo ha smosso parecchio una città pigra, accidiosa, e testarda, in un momento in cui tutto il mondo spingeva allo svecchiamento.

Ennio Valeri, detto Geiàr, ombre e luci, è stato l’ultimo visionario della mia terra, dal sogno fallimentare, perchè sogno effimero, come il ranch della Dallas degli Hewings e delle loro chiome cotonate che avrebbero di lì a poco anticipato l’attuale mondo fake.

La sua città, sostenitori, contorni, consulenti e nemici che a vario titolo vi si sono abbeverati, come sempre accade ai visionari, a un certo punto l’ha ingoiato e poi sputato via. Come un virus che entra in un sistema dormiente di germi già ben apparecchiati da tempo, per scompigliarne l’equilibrio, un pò di febbre e finisce fagocitato.

La televisione si chiamava VideoEsse, le iniziali dei cognomi suo e della sua Signora.

A Lei, in segno di riconoscimento, la città porga i suoi omaggi

Antonio Pizzola

1 Commento su "Geiàr"

  1. Molto toccante. Storia di quegli anni, annusata.
    Quando forse a Sulmona si poteva ancora osare ad osare.

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