Di che morte dobbiamo morire e di che vita vogliamo vivere?

In “Un altro giro di giostra”, un Tiziano Terzani fisicamente sfiancato dalla malattia, ma lucidissimo mentalmente, se la prende con quell’Occidente tanto criticato da cui era fuggito per decenni perché ormai aveva colonizzato – egemonizzando ed omologando – ogni cosa: dall’Asia più estrema alla sua Firenze.

Questo mi ha fatto riflettere perché negli ultimi anni, quando viaggio, cerco sempre di privilegiare mete fuori dai flussi turistici canonici, per capirci molto lontano delle blasonate capitali europee. Città a loro modo standardizzate, o in via di standardizzazione verso i modelli imposti dall’Occidente, tutti noiosamente uguali, replicati all’infinito come fotocopie che una dopo l’altra sbiadiscono sempre più. Parlo delle vie dello shopping, dei fast food e delle catene di franchising, dei quartieri spopolati e rimodellati da Airbnb. Tutto maledettamente uguale, tutti capaci di farci sentire a casa o al Megalò.

Kutsina, Bulgaria. Foto di Antonio Secondo

Per questo le mie ultime mete sono state quando ho potuto luoghi borderline, i Balcani, il Nord Africa e fra meno di due mesi il Medio Oriente. Luoghi che con fatica cercano di assomigliare al “ricco Occidente” ma che per fortuna, conservano alcune peculiarità locali che non sono ancora state inghiottite dal mare nostrum del profitto e della profittabilità. Penso ai palazzi bombardati di Belgrado, ai paesini disastrati e poverissimi delle campagne rumene e bulgare come Kutsina, che mi affascinava e mi hanno fatto sembrare di essere a Bagnaturo, ma cento anni addietro, o ai villaggi del nord dell’Albania, sulle Alpi Albanesi, fatti di quattro case e di un pulmino di proprietà comune che scende in città una volta al giorno. O ancora penso alla chiesa di Jovan Kaneo, solitaria custode del Lago di Ohrid in Macedonia o a Shutka, il quartiere nato sulla discarica alla periferia di Skopje.

chiesa di Jovan Kaneo, Lago di Ohrid, Macedonia

Penso a Ura Ibrit, il ponte che divide in due Mitrovica, in Kosovo, la città metà serba e metà albanese. Nel suo cimitero gli albanesi avevano devastato le lapidi dei serbi e questi per ritorsione avevano staccato la luce nella parte albanese della città. Nell’unica via del campo nomadi di Mitrovica, in mezzo a baracche disastrate e bambini che scorrazzavano scalzi, c’erano giovani donne, che passeggiavano sfoggiando i loro vestiti migliori con i visi truccati e bellissimi in un sabato pomeriggio in un Corso Ovidio direttamente dalla fine del Mondo. Oppure penso alle medine di Casablanca e di Fes, dove mercatini improvvisati di cianfrusaglie raccolte dalla spazzatura si affiancano ai banchi dei macellai che espongono la carne a favore dei turisti e delle mosche o penso alle strade che s’inerpicano sui monti dell’Alto Atlante, dove sorpreso ho trovato la neve.

Potrei continuare per giorni a descrivere quello che mi porto dentro da ogni viaggio ed ogni volta quello che rimane sono i dettagli. Non le insegne luminose dei centri commerciali, che pure delle volte mi è capitato di attraversare, né le vetrine di H&M e Zara, incredibilmente identiche alle nostre anche oltre le sponde Sud del Mediterraneo.

Campo Pericoli, Gran Sasso d’Italia. Sullo sfondo da sinistra: Pizzo Cefalone, Monte Corvo e Pizzo Intermesoli

In un Mondo che diventa tutto uguale, la Valle Peligna – uso questa come unità di misura di riferimento per una questione di semplicità, ma il discorso potrebbe essere esteso a tutte le Aree Interne – deve decidere di cosa vivere, o di cosa morire. L’essere stati negli ultimi cinquanta anni la periferia della periferia, ha fatto di noi un territorio povero, questo è vero, ma anche un luogo che ha mantenuto la sua autenticità. È per questo motivo che bisognerebbe sempre opporsi ad opere impattanti per il territorio, siano centrali Snam, trafori autostradali, discariche o centrali a biomassa.

Bisognerebbe iniziare a dare valore a tutto quello che per noi oggi non ce l’ha. La camminata in campagna, la signora del mercato che ti racconta la sua vita e ti chiede della tua, i pomodori colti nell’orto e finiti nel sugo del pranzo, le cime innevate delle montagne, mia nonna che ti ferma per strada e ti chiede “a chi sei il figlio” o la sua dirimpettaia che ti vuole a casa per il caffè.

Maam, Roma. Ludoteca

Tutta questa quotidianità che rimanda subito alla miseria di questa terra, in realtà è la ricchezza più grande che possiede. L’essere rimasti indietro rispetto ad un “progresso” che inghiotte risorse, territorio e competenze, ci sta di fatto salvando. Persino le fabbriche dismesse ed abbandonate potrebbero essere una ricchezza, se si pensa che altrove, gli ex stabilimenti industriali sono stati trasformati in musei di arte contemporanea, ne cito uno per tutti, il MAAM di Roma, ospitato nell’ex salumificio Fiorucci che oggi è la città meticcia Metropoliz.

Ci sono piccole realtà delle aree interne, come quartieri periferici delle metropoli, che si stanno affidando alla street art e all’arte contemporanea per rivitalizzarsi, di nuovo due esempi per tutti: il paesino molisano di Civitacampomarano e il quartiere romano di Tor Marancia. Artisti di fama internazionale lasciano sui muri le loro opere d’arte, che sono destinate a diventare le “gioconde” del futuro – basti pensare al valore inquantificabile che assumono le incursioni artistiche di Banksy – e gruppi di turisti, in larga parte giovanissimi, vanno in queste periferie per apprezzare quello che custodiscono.

Installazione di Edoardo Tresoldi, Ex Dogana, Roma

Tradizione e tipicità, natura incontaminata e per ampi tratti completamente selvaggia, arte in tutte le sue forme da quelle più classiche a quelle più avanguardistiche e sperimentali, il mix di questi fattori potrebbe rendere un’aree economicamente depressa in un laboratorio dove si mischia l’ecologia allo stare bene, l’arte alla natura, un’alta qualità della vita ad un’esistenza dignitosa.

Certo tutto questo non può avvenire spontaneamente. C’è bisogno che ci sia anche una chiara regia politica, una visione del territorio, un’unità d’intenti che al momento manca in maniera assoluta. C’è bisogno di una cittadinanza capace di interrogarsi e di riflettere, di immaginare, progettare e proporre idee e soluzioni ai propri amministratori, c’è bisogno di corpi vivi e non di sagome virtuali, c’è bisogno dell’impegno di tutti e tutte, e qui ritorniamo al titolo. Di che morte vogliamo morire e di che vita vogliamo vivere? Ve lo siete mai chiesto?

Tocca deciderlo in fretta perché non c’è molto altro tempo ancora a disposizione.

Savino Monterisi

2 Commenti su "Di che morte dobbiamo morire e di che vita vogliamo vivere?"

  1. Savino, sei uno dei pochi che riesce a capire queste cose ed il valore che ha la nostra terra, che non la si valorizza buttandole cemento o facendola diventare una donna venduta, ne tanto meno non la si può sviluppare facendola diventare squallida da vivere, come è diventata la costa per dire… Ti apprezzo e ti stimo molto anche per questo. Te, i tuoi colleghi di redazione che come te e quelle poche altre poche (ma le più onorevoli) che abbiano nella zona la tua preziosa sensibilità e conoscenza di queste problematiche. Per le quali non si può avere sempre una risposta e ne una soluzione. Ma per le quali bisogna sempre farsi domande. E in un mondo ormai incapace al ragionamento, o ingabbiato nella difesa delle proprie opinioni spacciata per ragionamento, o che ragiona troppo in maniera strumentale, è bello vedere che c’è ancora chi invece è capace ancora di ragionare cosi con una onestà intellettuale ed amore per la propria terra ed per quei pochi valori che essa conserva.

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