All’alba dell’8 ottobre 1943, un manipolo di soldati tedeschi irruppe nel carcere della Badia e,dinanzi al direttore dell’Istituto Corrado Dejean, e del personale di guardia, radunò tutti i detenuti, non meno di 383, nel cortile principale dell’antico monastero. Tutta l’operazione, secondo le testimonianze, durò soltanto venti minuti. Sotto la minaccia costante delle armi, i detenuti furono prima incolonnati e quindi scortati fino alla stazione ferroviaria di Sulmona. Ad attenderli, immaginiamo, mentre sfilavano tra lo sguardo attonito e curioso dei viaggiatori e del personale ferroviario, un treno adibito al trasporto del bestiame e delle merci. I detenuti della Badia, assieme ad altri nove giovani uomini rastrellati nella vicina Roccacasale, tra cui due minorenni, furono quindi distribuiti tra i vari vagoni del treno. In poco tempo, il convoglio lasciò Sulmona diretto a Roma. Si trattava, in verità, della prima tappa di un tragitto molto più lungo, che il treno con i deportati percorse in cinque giorni e sei notti toccando Firenze, Bologna e Verona, fino ai confini del Paese. Quindi, dal Brennero a Monaco e poi dritti fino al cuore della Baviera, nel konzentrationslager di Dachau.
La maggior parte dei deportati di Sulmona proveniva dalla Croazia (tra questi numerosi italofoni dell’Istria e della Dalmazia), dal Montenegro e dalla Grecia, tutti condannati dai Tribunali militari italiani per essersi opposti alle pratiche dell’occupazione nazi-fascista dei rispettivi Paesi. Non erano gli unici alla Badia. Dal mese di maggio 1943, l’Istituto di Pena di Sulmona ospitava alcuni antifascisti, tra cuiDanilo Dolfi, Gian Carlo Pajetta e Salvatore Cacciapuoti. Oltre ai condannati italiani del Tribunale Speciale e ai “politici” slavi e greci, vi erano poi decine di detenuti condannati per “reati comuni”.
L’ordine di scarcerazione per i “politici” antifascisti, inviato dal Ministro Azzariti alle procure del Regno il 16 agosto 1943, non ebbe gli effetti sperati. Le rigide disposizioni che accompagnavano il telegramma del Ministro esclusero di fatto gli “allogeni della Venezia Giulia et territori occupati”. Dalla Badia, quindi, nei giorni seguenti uscirono solo 25 persone, quasi tutte accomunate dall’appartenenza al Partito comunista. Gli altri furono trattenuti fin oltre l’8 settembre.
Non meno di 105 dei 392 deportati partiti da Sulmona furono eliminati nei vari campi di sterminio tedeschi. Sopravvissero in 117, ma 2 morirono nei giorni successivi la liberazione, prima ancora di essere rimpatriati. Sul destino dei rimanenti 170 deportati, in assenza di notizie certe, non è possibile avanzare alcuna ipotesi. La loro sorte, quindi, nonostante gli anni trascorsi, è al momento sconosciuta.
Le vicende di Sulmona si collocano certamente nel più ampio fenomeno che interessò migliaia di uomini reclusi negli Istituti di Pena e nei campi di concentramento italiani all’indomani dell’annuncio dell’Armistizio. Questo caso, però, sembra distinguersi almeno per un aspetto: la rimozione “fisiologica” di ogni traccia della deportazione dalla memoria istituzionale, e, di conseguenza, da quella collettiva di più ampio respiro “popolare”. Resta, ad ogni modo, il dato oggettivo che a sapere erano stati in molti. Nonostante recenti sollecitazioni, le istituzioni locali sembrano confermare la propria distanza da tutta la vicenda che, se affrontata nei suoi più intimi risvolti, aprirebbe complessi e doverosi interrogativi in merito ai 270 giorni di occupazione tedesca della Valle Peligna, uno dei territori più strategici nelle retrovie dell’intera Linea Gustav.
I fatti di Sulmona sono riaffiorati dall’oblio in cui erano stati confinati, solamente in tempi recenti, tra le pagine polverose di alcuni vecchi fascicoli conservati negli Archivi di Stato.
Carmelo Salanitro, antifascista, professore di Lettere del liceo Cutelli di Catania, condannato a 18 anni di reclusione nel febbraio del 1941dal Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, deportato da Sulmona a Dachau e poi a Mauthausen con il numero di matricola 61302, in una delle sue ultime lettere dal carcere, scrisse: “Attraverso il grido e l’appello e il monito della coscienza, parmi che si riveli ed esprima la voce potente del Signore. Seguire i suoi chiari impulsi, obbedire ai suoi inderogabili precetti ho sempre ritenuto stretto dovere dell’individuo che non vuole adagiarsi in un’inerzia morale che è peggiore della morte e non diserta il suo posto e non rinuncia a soddisfare certe insopprimibili esigenze della personalità e della dignità umana”. A queste parole, la professoressa Maria Salanitro Scavuzzo, nuora di Carmelo, in una recente lettera, aggiunge: “Io confido che i vecchi e i giovani del nostro tempo, saldamente uniti, saranno capaci di neutralizzare le nuove ideologie, assai simili al fascismo, che serpeggiano nella nostra Europa, fermamente voluta da un gruppo di oppositori alla dittatura fascista, che ebbero la fortuna, per loro e per noi, di sopravvivere”. Carmelo Salanitro fu ucciso la notte del 24 aprile 1945 nelle camere a gas del campo di sterminio di Mauthausen.
Quest’anno, come il precedente, un comitato di cittadini, riunito nella sigla “Cultura e Società”, al quale si uniscono le associazioni Terra Adriatica, Centro Studi Carlo Tresca, Il Sentiero della Libertà, ANPI sezione Valle Peligna e Una Fondazione per il Morrone, richiama alla memoria i deportati di Sulmona, e lo fa attraverso il ricordo del professor Carmelo Salanitro, l’immagine del cui volto è stata riprodotta in una serie di manifesti murali che saranno affissi nei comuni della Valle Peligna domani, 8 ottobre.
Mario Salzano
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