Un ombrello, meno ancora di una rondine, non fa primavera. Né tantomeno notizia. Potrebbe tralasciarsene ogni approfondimento, tanto più che in merito è stato detto quanto si doveva e anche quanto non.
Interessa relativamente il popolo se un suo rappresentante anche importante, sorpreso dalla pioggia, si sia attrezzato per ripararsene o se, trovandosene sprovvisto, rischi di bagnarsi.
Non è più tempo di papi re e imperatori, semidivinità a cui riconoscere per convenzione se non per fede, un servente per le esigenze corporali, che arrivava a rischiare, in caso di fallimento, punizioni sproporzionate alle sue responsabilità.
La Democrazia e la rinuncia al primus inter pares segna la sottile ma sostanziale differenza fra la monarchia (per quanto costituzionale) e la repubblica, in cui chi viene eletto è semplicemente un autorevole pari fra pari con temporanee prerogative di guida (e non di privilegi e potere). Tanto che, eccedendo forse nel principio, siamo arrivati a mettere in dubbio perfino vantaggi che per consuetudine si riconoscevano ad un eletto, auto blu, corsie preferenziali, compensi eccezionali, portaborse, costosi uffici di rappresentanza e vitalizi.
Questa la ragione che ha fatto apparire stonato, sconveniente se non addirittura riprovevole il gesto spontaneo di quattro volontarie di segreteria politica che in una convention abruzzese sono salite sul palco con l’ombrello per preservare dalla pioggia gli intervenuti.
Si è gridato allo scandalo, allo sfruttamento di genere (il fatto che le volontarie fossero signorine non ha di certo aiutato, come se quattro maschietti sarebbero stati più accettabili), vanificando la proposta argomento del convegno, rivelatasi un infausto boomerang e sputtanando l’intero Abruzzo a livello planetario.
Strano però a rifletterci, la medesima indignazione non si riscontrava nei tempi gloriosi di Berlusconi al quale veniva accordata per tacita intesa una sorta di patente da eccezione regale che gli permetteva, fra l’altro, codazzi di avvenenti minigonne in ogni occasione, compresa l’accoglienza a governanti stranieri in visita, da omaggiare con i migliori esemplari della bellezza nazionale, mozzarelle di bufala, stanze affrescate e stacchi di coscia.
Forse perché ben altri erano gli eccessi ai quali ci aveva abituato, le sue accompagnatrici di contorno a celebrare la floridezza di corte passavano nel gossip come un vezzo di stato, accolto spesso dai sudditi con riconoscimenti da maschio alfa a maschio alfa, a dimostrare di aver ottenuto l’effetto ricercato.
Né alcuna riprovazione si è sollevata prima e dopo Silvio, nonostante qui come altrove qualsiasi convention, podio sportivo, congresso di partito, evento mondano o trasmissione televisiva sembri non riuscire senza la guarnizione di scollature generose, tacchi a spillo e cosce nude.
Certo c’è una differenza sostanziale nel caso della convention abruzzese che rende ancora più smaccata la gaffe, la mancata remunerazione che avrebbe reso il servizio fornito – al di là del giudizio che se ne voglia esprimere – una qualsiasi prestazione d’opera, e non un volontario omaggio al vip che si rendeva anche reo di tirchieria.
Ma i convegnisti abruzzesi debbono aver sottovalutato anche quest’aspetto. Probabilmente la consuetudine, il costume diffuso, una certa patologia da braccino corto e la frequentazione di eventi nei quali è irrinunciabile il bel contorno per attrarre pubblico e consensi, li ha fatti cadere sul pisello di quell’ombrello umano sacrificato in piedi alle loro spalle.
Avrebbero dovuto gentilmente declinare l’offerta, alzandosi prontamente dalla poltrona, prendendo in mano il corpo del reato e invitando le generose volontarie a ritirarsi nel back stage.
Segnando, con eleganza, galanteria e opportunità strategica, la differenza sostanziale fra il vezzo del re che si celebra di ancelle ed eunuchi e la statura dello statista delegato dalla democrazia ad esercitare con dignità la sua funzione pubblica.
Che D’Alfonso e i suoi ospiti non abbiano rimarcato questa differenza, sia pure nell’inconsapevole sbadataggine – anzi peggio se si sia trattato di spontanea leggerezza –, certifica che la differenza non c’è.
Che il contorno di corte sia nel loro immaginario come in quello dei più fra noi – prime fra tutti le stesse ombrelline che cadono dalle nuvole domandandosi ma che abbiamo fatto di male?, – un insignificante dettaglio funzionale ad attrarre attenzione più del proverbiale carro di buoi. O peggio, l’omaggio dovuto al notabile come ad un vescovo il chierico che gli regge la mitra.
Questo mi pare l’argomento. Ma come al solito, nella pubblica riprovazione, si sorvola sulla complicità di ciascuno al pessimo costume diffuso e ci si appunta su tutto il resto, meno che sul punto.
Come a scuola quando il prof riportandoci il compito in classe, ci sventolava davanti al naso l’insufficienza perché, nonostante non fossero segnati errori rossi né blu, eravamo usciti non senza una certa nonchalance, assolutamente fuori tema.
Antonio Pizzola
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