È vero, viviamo ormai in tempi di confusione ideologica, di post-ideologia e di frenetica liquidità della politica, ma queste non potrebbero certo essere delle giustificazioni che tengano per il presidente-senatore D’Alfonso, che un giorno si candida come senatore, il giorno dopo dice di voler tornare in Regione e il giorno dopo ancora è già su un’autoblu al casello di Roma Est che spernacchia l’Abruzzo intero.
La cosa sconvolgente però è la disinvoltura con la quale D’Alfonso compie questi voli pindarico-geografici, come se fosse un Hegel o uno Schopenhauer prestato alla politica abruzzese, così bisognosa di essere rappresentata da fitte trame astratte che si perdono nell’etere un secondo dopo essere state annunciate dal buon Luciano di Lettomanoppello, ma raccontiamo i fatti con ordine.
Il 4 marzo come tutti ben sappiamo D’Alfonso viene eletto in Senato. Si apre subito dopo un tira e molla fra chi chiede al governatore di scegliere uno dei due incarichi e rassegnare le dimissioni per l’altro e lui che glissa puntualmente la scelta con la sua consueta prosa barocca al limite della “supercazzola” – ovviamente intesa in termine tecnico come lo Zingarelli insegna. La questione dimissioni tiene sospesa la politica regionale, intervengono anche le Iene regalando un fondoschiena di riserva al governatore, mentre martedì 8 maggio, approda finalmente in Consiglio regionale il voto sull’incompatibilità del doppio incarico.
Nel frattempo nei palazzi romani le cose non vanno però come dovrebbero, Mattarella uscito malconcio e senza soluzioni politiche dalle consultazioni annuncia che porterà in Parlamento un Governo neutrale – che suona come tecnico – contro il quale Movimento 5 Stelle, Lega e Fratelli D’Italia chiedono il voto anticipato, anzi anticipatissimo: a giugno o luglio. A quel punto la poltrona romana di D’Alfonso traballa come un seggiolino del tagadà, mentre in Regione sta per essere messa alla conta dei voti la sua reggenza. “Ma come – avrà pensato Big Luciano – da avere due poltrone a non averne nessuna nel giro di una notte non è contemplabile!”, così seguendo l’antico adagio costringe il Consiglio regionale ad una vera e propria forzatura, facendo votare contro la sua incompatibilità anche il presidente del Consiglio Di Pangrazio – che in commissione si era astenuto e che tecnicamente avrebbe un ruolo neutrale – scampandola infine per un solo voto.
D’Alfonso aveva scelto la strada vecchia per quella nuova, così i palazzi romani potevano seguire il loro corso, per quanto lo riguardava aveva la poltrona salva, poi però arriva l’ennesimo colpo di scena. Salvini e Di Maio, messi alle strette da un ritorno al voto quanto mai incerto, decidono di accordarsi per fare un inedito governo “gialloverde”, che riposiziona il Partito Democratico – D’Alfonso compreso – fieramente all’opposizione, ruolo nel quale il Pd si era collocato già un minuto dopo l’esito elettorale.
Ecco qua che finito il giro di giostra sul tagadà romano, Lucianone ci ripensa e piazza una nuova dichiarazione: “Fermi tutti, scherzavo, torno a Roma” e chi s’è visto s’è visto in Regione, con buona pace di qualche consigliere-assessore – che a livello nazionale giura guerra al Pd – che pur di salvare la sua di poltrona, ha indossato una bella maschera di bronzo votando contro l’incompatibilità.
Savino Monterisi
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