Certi giorni iniziano come tutti gli altri: suona la sveglia, ci stiracchiamo ed è pronto il caffè.
A ripensarci dopo, concentrandosi bene, il caffè di quella mattina non era buono come al solito: era troppo bollente e amaro, anzi troppo freddo e dolce.
Quel giorno, quando il telefono ha squillato, tutto si è fermato, ogni cosa ha perso senso e il caffè non esisteva più.
Tutto ha smesso di esistere, perché mio padre si è sentito male e se uno forte come papà può star male, allora mi tocca mettere in discussione ogni cosa, anche che il caffè possa essere buono: né troppo dolce né troppo amaro.
Una giornata, in un istante, si trasforma in inferno e niente potrebbe essere più come prima, figuriamoci il caffè.
Papà non è mai stato da quel lato della porta di una sala operatoria. Papà è quello che accompagna le persone alle visite mediche, oppure le va a trovare in ospedale, parla con il primario e dice che tutto andrà bene. Papà non è mai stato debole e indifeso, immobile o zitto.
Quando qualcuno che amiamo sta male, abbiamo bisogno di renderci utili: andiamo dal dottore, passiamo in farmacia e spremiamo un’arancia. Lo facciamo per dar sollievo all’infermo, ma anche per appagare la chioccia che è in noi, tenendoci impegnati in attesa della guarigione.
Invece, otto giorni fa, insieme a mia madre e mia sorella, non ho potuto fare niente per papà, proprio come mio fratello dall’America. Eravamo anche noi troppo lontane, bloccate non dalla burocrazia per ottenere la Green Card, ma dallo stato dei fatti. Distanti.
Frastornate e impotenti, senza aver modo di rimboccare una coperta, misurare una temperatura o porgere una pillola, ci è toccato stare ferme ad aspettare.
Inebetite e inutili, potevamo solo sperare che le stelle, i pianeti e Sant’Antonio nel cielo, così come il chirurgo, i tessuti cardiaci e il Sistema sanitario nazionale sulla Terra, fossero bene allineati per garantire la riuscita dell’operazione.
Ho provato a pregare, ma non ci sono riuscita. Le preghiere, che ho imparato a memoria come poesie a scuola dalle suore, non sono il mio forte. Non le capisco fino in fondo. Io Dio lo prego con parole più semplici e, in quei momenti, gli chiedevo di guardarci su quelle sedie della sala d’attesa e di aiutarci a dare un senso a tutto, accettando che uno come papà potesse stare così male, che per una volta non ci indicasse la soluzione del problema, che all’improvviso potesse smettere di sostenerci e dirci cosa fare.
Che d’un tratto il caffè scomparisse.
Tutto il caffè del mondo, anche quello dispettoso che sporca i fornelli appena puliti, anche quello nel tiramisù. Neanche un chicco in Brasile. Più niente.
Dio non aveva certo bisogno che io gli suggerissi di aiutare un uomo come mio padre: sicuramente era già accanto al cardiochirurgo di persona, senza delegare gli Angeli, a controllare che tutto procedesse bene.
Intanto noi, sedute immobili, abbiamo fatto finta di obbedire alle crudeli parole del medico: “Tenetevi pronte a tutto”, ma in realtà non eravamo pronte a niente, se non a quello che lui stesso ci ha detto dopo dieci ore di intervento: “È andato tutto bene, sono soddisfatto”.
Grazie alle stelle, ai pianeti, al fato, alla scienza, al chirurgo e all’anestesista.
Grazie a Dio.
Dopo quindici ore eravamo già con papà, sbalordite per la sua eccezionale ripresa, a sentirlo raccontare di come si fosse salvato la vita, capendo immediatamente cosa gli stesse accadendo e rispettando alla lettera i consigli che aveva sentito in televisione: sdraiarsi, sollevare le gambe e chiamare aiuto.
Quindi il mio grazie va pure a “Medicina 33” e all’inventore dei telefoni cellulari.
Come al solito papà era stato bravo: tutto organizzato e portato a termine ineccepibilmente.
Era finalmente davanti a noi, come sempre a dirci cosa fare e a farci ridere con le sue battute pessime, anche se su un letto di ospedale, stanco, intimorito e adrenalinico.
Borbottava ininterrottamente, come una moka quando fa il caffè.
Uno di quei caffè forti, che riempiono la stanza di buon profumo, che scaldano e danno energia, che si bevono a piccoli sorsi, affinché durino il più a lungo possibile.
La salute di papà è diventata l’argomento più gettonato in famiglia. Ogni giorno riceviamo decine di telefonate da parenti e amici, a cui finalmente possiamo rispondere con cauto sollievo, raccontando di quel cuore matto…matto da operare.
C’è ancora tanta strada da fare per uscire dalla convalescenza di un simile intervento, ma evidentemente Dio mi ha ascoltato e ora tutto ha un senso, che su quelle sedie rosse abbiamo capito.
Grazie a tutti.
Grazie alla buona sorte e alla buona sanità.
Grazie a Dio e a tutti coloro che lo hanno pregato. Continuate ancora un po’, se potete.
Grazie per i pensieri, i consigli, i messaggi e i passaggi.
Grazie per il caffè.
gRaffa
Raffaella Di Girolamo
Sono felicissima per papa’ e a voi un abbraccio stri to lo so ! Lucia
❤️