“In un periodo particolare, come questo, in cui Sulmona ed il Centro Abruzzo vivono momenti di decadenza socio-economica, di sensibile diminuzione della popolazione, di spoliazioni effettuate ed in arrivo e di altri eventi negativi, ebbene in momenti di arretramenti e di mancato sviluppo un’altra sventura sta per abbattersi sul Centro Abruzzo e cioè la perdita dell’importante ruolo ferroviario di Sulmona con la conseguente diminuzione di posti di lavoro”.
L’editoriale di Valerio Rosano scritto per il mensile “La Città”, al di là delle analogie, non parla del Centro Abruzzo attuale, ma di quello del 1989. È sconcertante quanto da trent’anni almeno, in Valle Peligna si dibatte degli stessi temi, talvolta piangendosi addosso, altre volte arrabbiandosi, senza riuscire a trovare un’uscita di sicurezza che torni a far respirare le persone dalle incognite sul futuro. Rosano nel suo editoriale, sottolinea che tutto ciò avviene in un momento storico in cui il Centro Abruzzo è politicamente molto rappresentato: il segretario regionale Uil, tre consiglieri regionali, il presidente della Provincia, alcuni assessori provinciali, un sottosegretario di Stato.
Non sembra dunque essere la rappresentanza politica il problema e se ci si pensa bene nelle ultime legislature la Valle Peligna ha sempre avuto rappresentanti in Parlamento, mentre gli ultimi cinque anni in Regione ha avuto un assessore. Nonostante questo le “sciagure storiche” del Centro Abruzzo – mancanza di lavoro, spopolamento e spoliazioni – non si sono fermate. Allora è forse il caso di indagare altre possibili cause. Una potrebbe rintracciarsi nella natura dei peligni. Se guardiamo indietro nella nostra storia, ci accorgiamo che i due momenti di sviluppo veri – e per questi intendiamo, quando larghe fette di popolazione sono uscite dalla miseria – si sono avuti con l’arrivo delle ferrovie, ma soprattutto con lo sviluppo industriale degli anni Sessanta e Settanta. Con tutte le ricadute economiche che hanno determinato soprattutto le fabbriche, l’economia del Centro Abruzzo è progredita avvicinandosi agli standard del Nord del Paese.
Questo tipo di sviluppo è stato esogeno, cioè è venuto dal di fuori e i cittadini sostanzialmente l’hanno subito, godendo per molti anni dei suoi benefici. Questo sistema ha iniziato ad incrinarsi con le trasformazioni industriali che il sistema di produzione capitalista ha vissuto a partire dalla metà degli anni Settanta: il passaggio ad un modello di produzione post-fordista, fortemente automatizzato ed ad alta intensità di tecnologia e con la delocalizzazione della produzione in paesi in cui il costo del lavoro era minore. Per tornare dal generale al particolare, nel Centro Abruzzo così come erano arrivate quelle fabbriche, qualche anno dopo hanno deciso di andare a produrre altrove, dove era per loro economicamente più conveniente. Questa è stata la dinamica che ci ha caratterizzato salvo rare eccezioni.
Guardare il passato di una popolazione, può essere utile per capire come questa potrebbe comportarsi in futuro. Qui la politica ha recitato per anni lo stesso tristissimo slogan: “Riporteremo il lavoro a Sulmona” e questo doveva farsi attraverso nuovi stabilimenti industriali. Nel cuore della forza lavoro peligna, in gran parte disoccupata e reduce di quella stagione industriale, sentendo le parole della politica, ingenuamente si emozionava, pensando che sarebbero tornati tempi felici per tutti, bastava votare il candidato giusto. Di nuovo si inseguiva un modello di sviluppo esogeno, dove un “Dio qualsiasi”, facendo un qualche tipo di grazia, avrebbe riportato industria, lavoro e felicità. I peligni sono rimasti negli ultimi vent’anni appesi alle parole di una classe politica che prometteva una cosa palesemente irrealizzabile e falsa, perché nel frattempo l’economia stava andando in un’altra direzione e di fabbriche in Italia non ne apriva nessuna, salvo rarissime eccezioni.
È allora forse il caso che tutti, dai politici ai cittadini, si fermino un secondo a capire cosa è successo nel mondo nel frattempo e quali sono le realtà che ce l’hanno fatta nonostante tutto. Innanzitutto bisogna dimenticare che qualcuno dall’alto farà un qualche tipo di cosa risolutrice per noi. Certo la politica, così come la fortuna, in certe circostanze possono aiutare, ma è chiaro che senza un elevato spirito di auto-imprenditorialità non ci sarà nessuna salvezza. Quello che manca nel Centro Abruzzo è senza dubbio la capacità di sognare e di rischiare, non è un caso che nello stemma di Sulmona, vicino al “Smpe”, in basso a destra, in piccolo, ci sia scritto “C’adà fa to?”. Siamo la patria dell’invidia e del complesso d’inferiorità. Siamo depressi e incapaci di immaginare un futuro diverso, magari migliore, di quello che viviamo. Ci limitiamo ad affogare i dispiaceri nell’alcool o in qualche sostanza psicotropa che ci allieta la serata, ma non andiamo mai oltre.
Non abbiamo ancora capito qual è il nostro ruolo nella città e la subiamo inconsapevolmente, così quando chiude un negozio “Che mi frega compro su Amazon” e se la scuola non ha la palestra “Che mi frega i miei figli sono già belli grandi” e se chiudono il tribunale “Che m’importa, mica faccio l’avvocato io”. Siamo rassegnati e avviliti, siamo tristi e l’unico gesto rivoluzionario che siamo in grado di opporre a questo degrado e scrollare la “Home” di Facebook o guardare l’ultima “storia” su Instagram o per i meno tecnologici, cambiare canale al televisore.
In Giordania, nel Wadi Rum Village, un agglomerato urbano apparentemente poverissimo, fatto di case sgangherate, strade malridotte dove i bambini giocano scalzi a rincorrersi, ogni famiglia beduina da qualche anno ha comprato un pick-up di seconda mano, ha piantato delle tende nel vicino deserto ed ogni giorno accompagna gruppi di turisti che vengono da ogni parte del mondo per vivere un’esperienza unica ed irripetibile, ma soprattutto che spendono mediamente in una giornata l’equivalente di uno stipendio mensile giordano.
Da quest’altra parte del Mediterraneo, in Abruzzo, non è che manchi la materia prima, di bellezze naturali, storiche ed architettoniche ne abbiamo a bizzeffe, manca solo un po’ d’immaginazione, un po’ di coraggio e di solidarietà. Forse perché abbiamo perso l’abitudine di stare insieme, di emozionarci bevendo un tè, sotto un immenso cielo stellato.
Savino Monterisi
Analisi perfetta e un’ autocritica è ineccepibile. Ne conosco pochi con lo sguardo oltre il naso in cerca di un orizzonte neanche tanto lontano.