Celeste cielo

Oltre a una foto in posa su una lastra di marmo, cosa resterà di noi alla fine di tutto questo?
Se le nostre gesta non saranno state degne di nota e non ci verranno intitolate piazze, associazioni o concorsi, in quanto tempo il nostro nome verrà completamente dimenticato?
Dipende da quanto lunga sarà la vita delle persone che ci hanno voluto bene e dal peso dei ricordi che avremo lasciato in loro.
Io penso spesso a mio nonno materno. Ci penso più ora di quando era in vita.
I genitori di mia madre hanno vissuto con noi da sempre, ma nonna ci ha lasciati nel 1983, nonno invece se ne è andato nel 2000.
Per me nonno Quinto era come una telecamera di sorveglianza posizionata in cucina, attiva ventiquattro ore al giorno, con i circuiti che emettevano un fastidioso ronzio. Era sempre in quella stanza: non c’era modo di rubare una merendina dalla dispensa o di entrare in possesso del telecomando della tv.
Tutte le edizioni dei telegiornali, ogni sorta di campionato di qualsiasi tipo di sport, i quiz di Mike Bongiorno, le puntate di Derrick, Quincy e financo Beautiful erano per lui improrogabilmente da vedere.
Quando spegneva la televisione, si girava verso il tavolo per fare ore di “Settimana enigmistica”, oppure pisolava sulla sedia, perché il rumore della lavastoviglie gli conciliava il sonno. La cucina era anche il luogo in cui apriva i pacchi della “Vestro”, che contenevano oggetti da lui ordinati personalmente, eppure era ogni volta una sorpresa: ancora una tovaglia, un’altra confezione da tre maglie intime, l’ennesimo trapano, di nuovo un set di cacciaviti.
Quando entravo in quella stanza, quindi nel suo campo visivo, osservava e scrutava ogni mio movimento: diventavo più avvincente e interessante delle avventure del commissario Derrick e del catalogo Vestro messi insieme.
Mi fissava mentre cucinavo e aveva sempre qualcosa da criticare, con puntuali richiami ai tempi della guerra, quando si soffriva la fame e si aveva rispetto per il cibo. Il gran finale era costituito immancabilmente da un proverbio: ne conosceva uno per ogni occasione.
Da quando non c’è più, però, a questi particolari non penso mai.
A dire il vero non penso neanche a quando mi veniva a prendere all’asilo con il motorino, quando mi portava in campagna con lui o quando cercava inutilmente di farmi capire la matematica.
Sono altri i ricordi che mi sovvengono di frequente alla mente: episodi del passato sparsi nella mia memoria, come pezzi di un puzzle che solo ora sono in grado di comporre.
Ricordo quando mi raccontò della sua proposta di matrimonio a nonna Maria:
-Essa era bella e io ero brutto. Quando le ho fatto la dichiarazione, credevo mi dicesse di no e invece rispose di sì.
Tutto qui. Allora mi sembrò poco, ma oggi collego questa frase al giorno in cui tornai a casa sognante, perché avevo incontrato un signore che in gioventù aveva conosciuto mia nonna. Lei (essa) era morta già da dieci anni e trovavo affascinante poter riferire a mio nonno le parole che mi aveva detto quel suo coetaneo così gentile:
-Mi ricordo bene di Maria: era molto bella e aveva una treccia di capelli neri che le arrivava fino al sedere.
Mio nonno si risentì. Trovò inopportuno il riferimento al deretano della sua defunta sposa. Fui intenerita da questa cosa, mi sembrò di aver aperto uno squarcio nella sua parte più intima, quella di cui non mi aveva mai parlato, e di avere l’opportunità di sbirciarci dentro.

Da ragazzina ero molto aggrovigliata, in casa mi piaceva stare sola e sorridevo solo se era proprio necessario. La presenza costante di mio nonno in cucina mi tediava, soprattutto per il suo non essere mai silente, ma sempre polemico.
Un giorno stavo preparando il pranzo, ovviamente sotto la sua vigile sorveglianza e, nervosa e incavolata, aspettavo mi elargisse il predicozzo quotidiano su come far meglio ciò che stavo facendo, invece quella volta mi disse:
-Non essere triste, quando sarete grandi vi sposerete e starete sempre vicini.
Non ebbi il coraggio di dirgli che a indispormi non era l’avere il fidanzato in una città lontana, ma il suo sguardo incessantemente addosso. Però quelle parole mi colpirono: era un tentativo di empatia che non avevo mai ricevuto da nessuno, fino a quel momento. Per la prima volta il mio broncio non era stato liquidato con un semplice “Hai un brutto carattere”.
Qualche tempo dopo, adorai la sua versione della storia della riappacificazione dei miei genitori da fidanzati, dopo un periodo di distacco: il dietro le quinte di un episodio che già conoscevo, ma che, riferito per sommi capi dai protagonisti, non avevo mai trovato così affascinante.
Le parole di mio nonno, quando smettevano di essere da “educatore rompiscatole” e diventavano da uomo romantico, innamorato, geloso, ironico e sensibile, sono la base della mia personalità.
Credo siano le fondamenta su cui a un certo punto della mia vita ho cercato di ricostruirmi, decidendo che è a lui che somiglio.
Da lui ho preso la passione per i romanzi storici e il piacere di raccontare i fatti cercando di andare oltre l’accaduto, provando a capirne l’essenza. Da lui ho preso l’assurda convinzione di sapere sempre come andrebbero fatte le cose per farle funzionare meglio e il non riuscire a trattenermi dal comunicarlo a chi ho di fronte. Da lui ho ereditato la capacità di rompere le scatole alle persone, fino a farle fuggire dalle stanze con gli occhi alzati al cielo in segno di fastidio.
Da lui ho preso il bisogno di cercare il mio posto nel mondo, senza mai riuscirci fino in fondo.
Mio nonno non ci riuscì perché non si rassegnò mai all’aver perso la madre quando era molto piccolo. Parlando della sua infanzia piangeva sempre, commuovendosi per la sorte di quel bimbetto, al quale toccò fare a meno così presto dell’affetto e delle cure materne.
Era certo che, dopo la vita terrena, sarebbe andato in Paradiso, perché in vecchiaia rispettò tutte le prescrizioni necessarie: le novene, le confessioni, le comunioni, i primi venerdì del mese, le messe dedicate ai cari estinti, il rosario e le offerte alla chiesa.
Sono convinta che abbia fatto tutto ciò, non per evitare l’Inferno, ma per potersi finalmente ricongiungere con la sua mamma, che era certo lo aspettasse in Paradiso.
Non vado mai al cimitero: non mi piace, è un luogo brutto e dal cattivo odore.
Però penso ogni giorno a mio nonno, ad esempio quando la situazione richiama uno dei suoi proverbi o quando mi capita di vedere un cruciverba senza schema, che lui avrebbe risolto in pochi minuti e invece per me è solo un insieme di quadratini bianchi.
Penso a lui anche quando butto il cibo scaduto o quando pelo le patate scavando troppa polpa. Chiudo gli occhi e riesco a sentire il sermone che arriva direttamente dal Paradiso, ma non è la voce brusca e imperiosa di mio nonno a parlarmi: è quella dolce e vivace di un bambino. Un bambino che mi critica sorridendo felice, fra le braccia della sua mamma.
Probabilmente sarei stata più lineare se da mio nonno avessi ereditato il colore celeste cielo degli occhi e non una sensibilità un po’ strampalata e tanto inappagata, ma è grazie a questo gene che ho potuto capire e scrivere il lieto fine della storia straziante di quel povero orfanello, con gli occhi celesti come le lacrime di cui erano spesso pieni e come il cielo dove ora sta, finalmente sereno, finalmente nel posto in cui avrebbe sempre voluto essere.

gRaffa

Raffaella Di Girolamo

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