No.
Non cambia granchè nella vita del Paese ancora in ferie, né tantomeno al rientro, se qualche centinaia di ettaro di bosco dell’Appennino brucia.
Non risveglia i media impigriti in ben altre faccende, come l’annuale meeting stessa spiaggia stesso mare di politici e vip abbronzatissimi di comunioni, liberazioni e continenti neri.
Non mette in allarme alcun ospite di meeting se le falde che ardono non sono del Kilimangiaro ma di un monte dell’entroterra abruzzese che nessuno di loro saprebbe posizionare su google map, o associare ad un patrimonio naturale di boschi e animali ormai in estinzione.
Che vanno in fumo, trasformando la valle ai piedi in una camera di gas tossico.
A nessuno interessa cosa rappresenti per il carattere duro e schivo degli abruzzesi la presenza di quell’ammasso roccioso riarso, duro e fermo, a volte perfino minaccioso, come un padre severo che domina nella sua imponenza il paesaggio ai suoi piedi. Che si staglia come una divinità indifferente al tempo sul fondale di ogni chiusa prospettiva dei borghi al di sottoi, o come un gigante preistorico fossilizzato che ad ogni stagione muta la pelle pur restando immutabile a se stesso nei secoli. Nulla che smuova interessi, produca pil, sposti voti, si venda al mercato delle vacche grasse, attragga vip abbronzatissimi e meeting di alligalli.
Deve essere per queste ragioni, perché accaduto in piena stagione di ferie, perché non ha fatto vittime da scoop che avrebbero potuto giustificare rientri anticipati di ferie, perché è solo un ammasso di roccia sconosciuto ai più, su un territorio di provincia remota che non fa notizia se non per catastrofi -di solito dimenticate in fretta-, deve essere per questo se il rogo di una settimana di centinaia e centinaia di ettari sul monte Morrone nel centro Abruzzo non ha svegliato nessuno dal letargo estivo.
Deve essere per questo se già ai primi focolai chi avrebbe dovuto allarmarsi ha rimandato, se il sistema di prevenzione ha fatto cilecca come un impianto antifurto attivato per le vacanze ma con le batterie scariche.
Deve essere stato per questo se si è alzato in cielo troppo tardi, quando ormai il fuoco aveva raggiunto dimensioni ingovernabili, un solo canadair, che dai piedi di quell’imponente massa rocciosa sembrava l’angioletto della parabola agostiniana che cercava di svuotare il mare con un secchiello.
Deve essere stato per questo se gli allarmi delle amministrazioni locali sono partite in ritardo o forse invece tempestive ma inascoltate negli istituti in cui si sarebbe dovuto vigilare. O magari no, magari chi è preposto alla vigilanza ha prontamente fatto il suo dovere, ma come al solito la scarsezza di mezzi, di risorse e di presidi ha vanificato le buone intenzioni.
Insomma, probabilmente si scoprirà non è stata colpa di nessuno, il Morrone brucia come un Polifemo che continua a gridare il suo dolore al vento, cercando nella sua grotta il perfido Nessuno che l’ha accecato.
Se una manica di farabutti appicca il fuoco non si sa per quale dolosa intenzione, si sentenzierà, è normale restarne vittime inermi, come dinanzi alle tanti catastrofi, terremoti, alluvioni, inondazioni finite senza provvedimenti.
Assistere impotenti alle urla strazianti del gigante roccioso è doloroso, come se a soffrire non sia un ammasso di roccia riarsa e dura ma l’anima stessa della terra che Silone raccontò amara. E che trasforma quel dolore in rabbia sorda, come se il gigante ferito urli la sua impotenza al potere distante e indifferente che viene solo ad elemosinare voti e che oggi, a tre giorni dal disastro, pubblica compiaciuto un post in cui annuncia di aver convocato un tavolo di concertazione.
Un tavolo.
Che chiede di lasciarci credere ad una volontà politica precisa al progressivo abbandono delle terre più isolate e periferiche, il diritto di essere dietrologi e complottisti di fantapolitica, l’illusione che dietro questo scenario decadente ci siano poteri forti a cui vendere le nostre terre abbandonate, le nostre anime povere di pil, i nostri giganti rocciosi che urlano dolore.
Perché se così non fosse, se davvero fosse solo incuria, disorganizzazione, incompetenza, dimenticanza, indifferenza, se la sottovalutazione dei nostri invidiati patrimoni sia solo frutto di cecità, se la ragione delle mancate risposte sia un casuale procedere a tentoni sotto l’ombra di un ombrellone spiaggiato, sarebbe insopportabile.
Vorrebbe dire che siamo nelle mani di un manipolo di improvvisati, in quanto tali, più pericolosi dei farabutti che hanno acceso quel rogo che almeno, per quanto perverso, malvagio e idiota, uno straccio di disegno ce l’avevano.
Antonio Pizzola
E’ orribile assistere impotenti a questa agonia.
Speravamo nella pioggia prevista lunedì scorso
e invece il cielo non ha pianto per questa tragedia.
NON PIOVE, GOVERNO LADRO.