Sono cresciuto circondato da monti, fra gelidis e uberrimus undis, cantava Ovidio poeta conterraneo.
Basta aprire il rubinetto per averne in ogni momento e stagione ad libitum. Anche fuori casa, basta avvicinarsi al mascherone monumentale che da più di otto secoli regala acqua fresca e gustosa per chiunque ne voglia.
Quando mi sono trasferito a Roma, la capitale delle fontane, degli acquedotti, delle fonti e delle terme mi sentivo a casa: i celeberrimi nasoni raggiungono anche l’anfratto più periferico, prima delle strade, delle fogne, dei mezzi e degli altri servizi pubblici, spesso carenti. Segno di civiltà di origine antica, l’acqua non doveva e non deve mancare mai, nei quartieri più in come fra le catapecchie più lontane, per il refrigerio di ricchi, poveri, residenti, pellegrini, senza tetto.
La disponibilità di acqua nel mio immaginario è sempre stata scontata, come giusto e ovvio debba essere in un paese baciato dalla sorte, perché costituito per il 75% da rilievi montuosi e collinari, fra i più ricchi di fonti, oltre che circondato dal mare. Va da sé che il restante 25% di pianure, peraltro le più densamente abitate, hanno necessità di essere servite da attrezzature che fin dai tempi antichi distribuiscano l’elemento essenziale della vita, dalle fonti fino alle case o alle strade per chi una casa non ce l’ha.
Una riflessione questa che parrebbe talmente lapalissiana da risultare banale: tale deve essere stata certamente per le aziende che da qualche decennio sull’acqua imbottigliata hanno creato le loro fortune.
Basta domandare a google per scoprire che siamo il terzo paese esportatore di acqua imbottigliata nel mondo, per un giro di affari di oltre 600 milioni di euro. Per lo sfruttamento dell’acqua le multinazionali imbottigliatrici pagano in media all’Erario concessioni di € 2,00 ogni 1.000 metri cubi: lascio alla calcolatrice contare gli zeri che precedono il 2 dopo la virgola per ogni litro.
Il medesimo numero, i 2 euro senza virgola, che invece è il prezzo di una bottiglietta di acqua da 33 cl dentro il frigo dell’autogrill, quando ti ritrovi assetato a 40 gradi in autostrada e saresti disposto a indebitarti da uno strozzino pur di dissetarti.
Certo, ci sono i costi di imballaggio e accessori che fanno lievitare il prezzo della bottiglietta al rivenditore finale. Quotano il 37% del prezzo finale e questo dato ci fa sentire ancora più idioti, perché compriamo plastica, etichetta, trasporti, plusvalenze varie per pagare, subito dopo aver bevuto, i danni ambientali che l’intero ciclo di produzione ne genera.
E fin qui il paradosso sta solo nei costi.
Poi, d’estate, capita di andare in vacanza nel meridione, ugualmente ricco di territori montuosi e quindi di fonti, oltre che di mari, dove l’emergenza estiva che si ripete da che ne ho memoria, oggi aggravata dai cambiamenti climatici bla bla bla, umilia le popolazioni nelle città come nei territori a centellinare l’acqua nelle bacinelle e nelle vasche.
Le giustificazioni dei consorzi e degli enti di gestione, spesso commissariati uno dopo l’altro da decenni, assomigliano alle barzellette dello zio da bambini: funzionavano non perché facessero ridere ma perché le ripeteva a loop. Credo superfluo riportarle, le conoscerete: i dissalatori mai finiti, gli acquedotti bucati, i truffatori che ne intercettano i percorsi, i territori impervi, i cambiamenti climatici e la mamma che ce n’è una sola.
Fatto è che un mio coetaneo nato in Sicilia ha avuto a disposizione a conti fatti un decimo dell’acqua di cui ho potuto usufruire io, pur pagandola, in varie voci di spesa dirette e indirette, molto di più di me. Non può bere l’acqua del rubinetto perché non è corrente ma ferma per giorni al sole nei recipienti sui tetti. Periodicamente i cassoni si svuotano e se non si vogliono attendere i turni di settimane occorre comprarla dalle autobotti, che accorrono a fornirne come gli strozzini quando paghi il pizzo.
I danni sono incalcolabili, a cominciare da quelli della salute per finire nelle occasioni di imprenditoria mortificata, qualsiasi sia l’attività si volesse intraprendere sottomessa al ricatto della carenza del bene primario. Ovvio che le mancanze del pubblico vadano ad alimentare i lucri delle criminalità organizzate se non, nei casi peggiori, ne costituiscono i presupposti:
fornire acqua a chi ne necessita vale molto di più, e a rischio zero, del mattone, della droga, dei traffici di migranti.
Ma chi ne parla? Ci fosse un partito, un movimento, un rappresentante del popolo che se ne faccia portavoce. Che ci aiutasse a fare due più due, se ci debbono essere lucri milionari privati che una quota di quei lucri vengano stornati per ammodernare gli impianti di pubblica distribuzione. Ci fosse un magistrato che ne indaghi le responsabilità e le ripercussioni di reato, le cui conseguenze sulle persone e sul tessuto sociale sono incalcolabili.
L’errore dei sudditi è sempre lo stesso: pensare sia un problema di chi ha il problema e che invece, avendo sempre convissuto con tali carenze, si è convinto debba essere necessariamente così. Il prezzo da pagare per essere nati con il sole, il mare, il cielo blu e le arance rosse.
Antonio Pizzola
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