Che il calcio sia uno sport composto di fatti semplici ne era convinto anche Pelé. Una semplicità sempre più nascosta dall’opulenza contemporanea. Ecco perché per rintracciare palloni di cuoio e campi in pozzolana occorre ribaltare la clessidra e spegnere i riflettori, accesi da alcuni mesi sugli aurei deserti dell’Arabia Saudita.
Meglio affacciarsi su un lago che nasce da una frana di una parte del Monte Genzana, in piena preistoria, che sbarra il passaggio al fiume Tasso. E’ l’evento che dà vita al toponimo di Frattura, a cui andrebbe affiancato l’aggettivo “nuova”, perché quella “antica” è andata distrutta nel 1915, quando una scossa di magnitudo 7.5 della scala Richter sgretolò Avezzano, lasciando solo macerie e lacrime nella piana del Fucino e non solo. Il vecchio borgo di Frattura venne giù con una parte della montagna e metà della popolazione che lo abitava. Centosessantadue vittime, molte delle quali donne e bambini, mentre mariti e padri si trovavano in Puglia quella mattina fredda e sanguinosa di gennaio. A salvargli la vita fu la transumanza. Una necessità più che un lavoro in un’epoca dove si viveva di pane, terra e fatica.
Nella storia dell’unica frazione di Scanno, ricostruita tra il 1932 e il 1936 con i primi tre edifici voluti da Benito Mussolini, c’è spazio anche per far rotolare il pallone alle pendici del monte Rava. A rimettere in ordine i pezzi del puzzle è Venanzio Presutti, ventottenne freelance, che ha dato vita a un laboratorio di giornalismo sportivo che si è trasformato in una macchina del tempo, con protagonisti del passato che hanno deciso di dissotterrare il forziere dei ricordi e mostrarli alle nuove generazioni.
A far andare indietro le lancette sono Germano e Palmerino Caputo, due ex calciatori della squadra locale. Ottantadue primavere il primo, settantacinque il secondo. Sono tra gli invitati al museo delle Arti di Frattura, dove c’è anche Anna Rizzo, antropologa vincitrice del Premio Croce con il libro “I Paesi Invisibili”. Un titolo dall’eco di calviniana memoria.
Germano dice che da ragazzo assomigliava a Scirea. “Giocavo da libero – spiega – ma ogni tanto aiutavo in avanti. C’era chi, in campo, mi vedeva ovunque. Diciamo che avevo buon senso della posizione”. Palmerino, invece, scherza sul proprio ruolo. “Dove giocavo? In panchina – ride -. Se mancava un attaccante entravo io. Se mancava un terzino entravo io. Giocavo ovunque, ma non in porta”. E quando gli chiedi l’idolo d’infanzia inizia a sciorinare una filastrocca senza note ma dal ritmo conosciuto: “L’idolo? Gli idoli, vorrai dire – ci corregge – Sarti; Burgnich, Facchetti; Bedin, Guarneri, Picchi; Jair; Mazzola, Milani (Peiró, Domenghini), Suárez, Corso”. E’ la grande Inter di Helenio Herrera, che ha dominato per tre anni l’Italia, l’Europa e il mondo. Conosciuta anche a Frattura, nonostante le partite trasmesse con il contagocce in televisione, durante gli anni Sessanta. “E chi le vedeva le partite – commenta Germano -. Al massimo si giocava al campetto, e quello era un evento per tutto il paese. In molti venivano a vederci giocare perché il calcio veniva trasmesso poco”.
Tra le mani hanno le foto della prima squadra di calcio di Frattura. Sono frames più anziani di loro. E’ un’immagine del 1947. L’Italia è appena uscita dalla notte più buia della storia. Talmente oscura da fermare anche il pallone. Lo scatto dalla tonalità seppia ritrae gli undici schierati dopo una partita: maglie attillate e calzettoni di lana. I guanti da portiere non ancora esistono. Dei parastinchi nemmeno l’ombra. “La lunghezza del campo da calcio? Era a sentimento – spiega Palmerino -. Ci bastavano due porte. Poi, forse, era più stretto del normale. Ma eravamo l’unico paese ad averne uno nella Valle del Sagittario. Né Scanno né Villalago lo possedevano. Qui, contro di loro, organizzavamo ogni anno dei tornei. L’unico problema era quando il pallone finiva dentro al cimitero”.
Immagini e storie che portano a riflettere su uno sport che in ottant’anni è mutato e migrato nonostante i 1.260 metri sul livello del mare. Nonostante gallerie scavate nella nuda roccia e una strada che una decina di anni fa franò, costringendo gli studenti pendolari della Valle del Sagittario a un cambio di autobus ogni mattina per aggirare i massi che interrompevano l’unica arteria in grado di far raggiungere Sulmona. D’altronde il pallone non conosce confini, passato a rotolare dalle catene montuose d’Europa alle dune che circondano Riyad. Pieno di denaro e svuotato di ambizioni.
“Noi giocavamo per spensieratezza. Mica come oggi con giocatori pagati milioni e milioni”, incalza Palmerino, con gli occhi spiritati in cerca dell’approvazione dei presenti. Ma il calcio è cambiato e non ce lo raccontano solo le vagonate di petroldollari che quest’estate i club sauditi hanno versato a società e giocatori. Ce lo spiegano i dettagli. Quelli tinti di bianco e nero nella foto della squadra di Frattura. Tre calciatori con una sigaretta accesa tra le mani. Impensabile al giorno d’oggi un’istantanea del genere su Instagram o tra le colonne dei giornali. Impensabile nell’era in cui Cristiano Ronaldo arriva nella sala stampa di Budapest, assieme al ct portoghese Fernando Santos, e leva due bottiglie di Coca Cola posizionate a fianco al microfono, urlando “Acqua! Bevete acqua!”. Un gesto figlio dell’ossessione maniacale per la cura del corpo che ha fatto perdere 4 milioni di euro all’azienda americana, sponsor ufficiale degli Europei. Altro che tabacco, filtri e cartine a centrocampo.
Oppure l’orologio al polso di uno dei “calciatori più benestanti”, come racconta Germano, di quella squadra del Frattura. Non paragonabile di certo al Rolex Daytona con un cinturino in alligatore e diamanti blu che Ibrahim Al-Faryan, un tifoso dell’Al-Ittihad, ha voluto donare a Fabinho dopo la gara vinta contro l’l’Al-Raed. Il motivo del gesto? Perché l’ex calciatore del Liverpool (che guadagna 18 milioni a stagione) ha semplicemente giocato bene. Ovvero, ha fatto il proprio dovere in campo. Un omaggio da 40mila euro.
Stesso sport, ma epoche e latitudini diverse. Semplicità e povertà da un lato, eccessi e sfarzo dall’altro. Lo sa bene anche la nazionale italiana, orfana del ct Roberto Mancini, richiamato dai misteri dorati d’oriente. Lo attende un contratto da novanta milioni di euro. E’ la naturale evoluzione del pallone, più gonfio di soldi ma meno pesante di quello cucito in cuoio che rimbalzava tra le lapidi del cimitero di Frattura.
Valerio Di Fonso
Purtroppo o forse no, non é lo stesso sport. Oggi giocatori e allenatori sono da considerarsi dei mercenari. È triste ancor di più constatare come la maggior parte delle persone si interessi ancora a questo sport.
Bravo Venanzio!
Purtroppo il calcio è diventato un enorme giro di soldi. Tantissime partite per riempire gli stadi, calcio-scommesse, diritti televisivi, l’affarismo edilizio legato ai nuovi complessi sportivi, le plusvalenze delle grandi imprese che hanno dentro di loro anche le società di calcio. Credo poi che nessun calciatore guadagni realmente tutti quei soldi, ma che i loro contratti milionari fatti di continui acquisti e vendite servano ai giri contabili delle grandi aziende che hanno anche queste società. Rimane la genuinità del calcio giocato per strada, nei campetti dell’oratorio fino alle giovanili dove si era ancora fuori dal capitalismo sportivo…!!!
Muo padre mi mandava a giocare la schedina entro il sabato mattina. La domenica primo pomeriggio sapevi se avevi fatto tredici.
Ora il turno settimanale inizia il venerdì,credo,e termina il mercoledì,credo.
PANEM ET CIRCENSES PROLUNGATO.