E’ passata una settima esatta dall’arresto di Matteo Messina Denaro. Sette giorni in cui i riflettori della cronaca sono stati puntati sui luoghi simbolo del boss dei corleonesi. La clinica “La Maddalena” di Palermo, dove è stato arrestato dopo aver svolto un tampone, e nella quale si curava per l’adenocarcinoma mucinoso del colon da cui è afflitto. Montebello di Mazara era il posto in cui Messina Denaro soggiornava. Un covo, intestato a quell’Andrea Bonafede che aveva ceduto letteralmente la propria identità al vertice di Cosa Nostra. Poi il secondo e il terzo nascondiglio scoperti in quello spaccato di Sicilia Occidentale. E alla fine, il carcere dell’Aquila dove Matteo Messina Denaro è rinchiuso in regime di 41 bis.
Ma l’Abruzzo, nell’epilogo dei 30 anni di latitanza di Matteo Messina Denaro, ha prestato non solo la location, ma anche uno degli “attori” principali. Nell’arresto del mafioso più ricercato di sempre è stato fondamentale infatti il lavoro svolto dal Raggruppamento operativo speciale dell’Arma dei Carabinieri, anche detto ROS. Ovvero coloro che hanno tracciato ogni movimento di Messina Denaro per poi mettergli le manette ai polsi. Proprio in Abruzzo ha le sue radici il comandante del Reparto Indagini Tecniche del ROS, il colonnello Rubino Tomassetti. Aquilano di nascita, il colonnello Tomassetti ha vissuto a Collepietro, sulla piana di Navelli.
Ha intrapreso la carriera militare nel 1988, con la frequenza del 25° Corso applicativo per l’Arma dei Carabinieri. Ha ricoperto diversi incarichi e, in particolare, quello di comandante di Plotone presso la Scuola Allievi Carabinieri di Roma (1988–1989), addetto presso il 1° Battaglione Allievi Carabinieri di Campobasso (1989–1991), comandante del Nucleo Operativo e Radiomobile della Compagnia di Foggia (1991–1995), comandante della Compagnia di Grosseto (1995–1998), addetto alla Sezione Anticrimine di Roma (1998–2005), comandante della Sezione Anticrimine di Salerno (2005–2010), comandante del III Reparto (analisi) del Raggruppamento Operativo Speciale (2010–2016). Dal 14 settembre 2016, ricopre l’attuale incarico di comandante del Reparto Indagini Tecniche del ROS. E’ lui che ci ha spiegato come, dopo trent’anni, Matteo Messina Denaro è stato arrestato.
Quanto lavoro c’è dietro l’indagine che ha portato all’arresto di Matteo Messina Denaro lunedì scorso?
Ci sono almeno dieci anni di lavoro condotti sul campo. Sono state fatte operazioni importanti che hanno indebolito il circuito che favoriva la sua latitanza. Gli abbiamo tolto le persone che lo potevano aiutare. Sono stati importanti anche i sequestri dei beni riconducibili a lui. Insomma, gli abbiamo levato la possibilità di muoversi in maniera più coperta, mettendolo in condizione di venire allo scoperto. E’ stata una sorta di operazione a cerchi concentrici. E’ un lavoro metodico, costante, e delicato al quale hanno preso parte almeno 60 persone che per anni hanno fatto solo questa attività. Nell’ultimo anno e mezzo è iniziata l’ultima fase di cattura che è andata avanti in maniera intensiva.
Alla cattura si è arrivati a piccoli passi o c’è stato un vero e proprio punto di svolta?
Possiamo dire che un punto di svolta lo abbiamo avuto grazie all’attività di intercettazione dei familiari. Ci siamo accorti dei riferimenti alla malattia in ambito familiare. Non hanno mai fatto riferimenti diretti al latitante. Investigando e ascoltando intercettazioni ambientali siamo riusciti a capire che tipologia di malattia lui avesse.
E poi?
A quel punto è stato avviato un lavoro di analisi, impegnativo e meccanico, poiché i malati oncologici sono censiti. Avevamo a disposizione una vera banca dati in cui sono elencate decine di migliaia di persone. Abbiamo anche un elenco dei farmaci oncologici che vengono venduti. Abbiamo dato un target per trovare il latitante: fascia d’età, fascia territoriale e medici che prescrivevano medicine per malati oncologici. Il tutto è stato incrociato grazie a dei software e nell’arco di 6 mesi abbiamo avuto tra le mani 22 persone che coincidevano ai parametri. Erano codici, in realtà. Per questioni di privacy non potevamo avere nome e cognome di essi, ma ad ogni codice era legata un’identità, e tra queste c’era anche Andrea Bonafede (alias Matteo Messina Denaro).
Questo sforzo non poteva essere bypassato chiedendo direttamente alla Asl o alla clinica privata di fornire i dati?
In certi ambienti non sai mai a chi ti rivolgi. Non sai chi hai realmente difronte. Prendiamo come esempio il selfie assieme al medico: penso che nessun dottore si faccia una fotografia a caso con un paziente. Per questo non potevamo approcciare direttamente con loro. Saremmo stati scoperti.
Matteo Messina Denaro ha compiuto qualche passo falso o solo la malattia è stata la vera causa della sua cattura?
Il fatto che ci fosse il nome di Andrea Bonafede ci ha dato l’ultima certezza, poiché il papà era mafioso, e i due si conoscevano da bambini. Un’altra leggerezza è data dal fatto nella stessa zona siciliana ci fossero effettivamente due Andrea Bonafede. Seguendoli abbiamo visto che quando il latitante faceva la terapia in clinica il vero Bonafede stava da tutt’altra parte.
C’è stato il rischio di farselo sfuggire?
Nella parte esecutiva no. Queste operazioni vengono preparate con estrema attenzione. C’è un circuito esterno di sicurezza. La sera prima della cattura abbiamo monitorato il boss e ci siamo accorti che non era scortato. Poi lunedì, all’interno della struttura dove si trovava, c’erano le teste di cuoio. Eravamo certi di prenderlo.
Nell’ultima settimana sono venuti fuori tre covi in cui si rifugiava Matteo Messina Denaro. Erano abitazioni già attenzionate?
Noi arriviamo all’abitazione di Messina Denaro con un accertamento catastale solo quando arriviamo al nome di Andrea Bonafede. Fare monitoraggio in quegli ambienti è rischioso. Significa esporti a lungo tempo. Noi del Ros seguiamo i movimenti in maniera tecnologica. Sappiamo quali sono i canali di comunicazione che usa. Quali sono le sue abitudini. Quando si sveglia e quando dorme. E’ un lavoro che richiede tempo e prudenza.
Quanto è fitta la rete di protezione, diciamo anche omertosa, che ha permesso a Matteo Messina Denaro di rimanere a Montebello di Mazara, a un tiro di schioppo dalla sua Castelvetrano?
Questa, purtroppo, è la forza di queste organizzazione criminali. I boss effettuano la propria latitanza dentro “casa”, proprio perché è il loro territorio. C’è una cerchia di gente che li protegge. Tra chi sta vicino al latitante e la sua organizzazione ci sono due o tre passaggi. Ora analizzeremo le copie forensi dei telefonini e si ricostruirà il circuito relazionale di Matteo Messina Denaro. Per questo parlavo di cerchi concentrici. Vivendo in ambiente ad alta presenza mafiosa, inoltre, c’è un’alta componente di paura nella popolazione. La forza di intimidazione sul territorio, mescolata alla coesione, è il vantaggio dei boss. Esso nasce da una vera struttura militare potente e radicata. Teniamo conto anche dell’aspetto sociale: in molti contesti, purtroppo, il lavoro lo dà la mafia. Controllano una parte di politica e di pubblica amministrazione. E’ un vero e proprio antistato, a volte più potente dello Stato stesso. Ecco perché il problema va risolto in ogni settore. La mafia va battuta dal popolo, con una lotta sociale che deve partire dalle scuole. Noi, con il nostro lavoro, togliamo l’acqua dal mare con il bicchiere. E non basta per eliminare la mafia.
Ma voi l’avreste mai detto, o pensato, di trovarlo in Sicilia? In un paese di 10.000 anime?
Sì. Montebello, Trapani e Castelvetrano, sono stati i luoghi in cui abbiamo concentrato da sempre la nostra attenzione. Qui c’è un controllo asfissiante dell’organizzazione criminale. Più gli anni passano, più il latitante si sente sicuro di non essere trovato. Matteo Messina Denaro si è esposto in maniera anomala rispetto a Riina e Provenzano. Provenzano venne arrestato in un casolare di campagna. Matteo Messina Denaro cenava nei ristoranti.
E qual è il prossimo passo?
Oggi, con l’arresto di Matteo Messina Denaro, si chiude un’epoca. I latitanti di quel contesto mafioso, stragista, dei corleonesi, che hanno dichiarato attacco allo Stato, sono finiti. Fortunatamente. Cosa Nostra non ha più vertici di quel genere. Certo, la mafia non è finita. Ci sono delle famiglie mafiose, ma sono nuclei distaccati con l’unico interesse di fare denaro illegale e contrastare lo Stato, ma rimanendo invisibili. Oltre al lavoro in campo antiterroristico, l’obiettivo a carattere generale è il contrasto alla ‘ndrangheta. E’ una delle organizzazioni più potenti al mondo. Ha proiezioni su tutti e cinque i continenti. E’ strutturata, ha poca defezione e meno pentiti. Questo perché al suo interno vi è un vincolo associativo forte. I suoi affiliati sono i più pericolosi narcotrafficanti al mondo.
Valerio Di Fonso
Diciamocela tutta internos, tra paesani.
Confesso che quando era Piritore questore a L’ Aquila e mi bocciò una domanda per un documento , la prima cosa che pensai fu,: Ma vaff….o ha fatto bene la mafia che ti hanno sparato. Chiaramente se me la avesse approvata avrei pensato: Piritore è bravo è un signore,come lui a L’ Aquila ce ne vorrebbero 10.
Il problema fortemente culturale in Italia è proprio questo, sino a quando la mafia spara a Piritore od altri addetti ai lavori (adatti a rispondere al fuoco) perché c’è un interesse logico di denaro, di intralcio o di contrasto alle proprie attività, viene dalla opinione pubblica, nel male, anche compreso come le faide e i vecchi delitti d’onore. Le azioni stragiste portate avanti a caso; come Breivik o come negli USA; che colpiscono ignare persone innocenti che si fanno gli affari loro, non sono invece socialmente e senza rassegnaziobe accettate , e specie nel mezzogiorno per altra abitudine ed altra concezione esistenziale.
Perciò se il Messina Denaro si dissocia e non riconosce gli atti stragisti che ha commesso in condizione di sudditanza ai capi ed in giovane età, già può accampare che durante la sua supposta dirigenza, queste azioni di grande impatto e grave allarme sociale sono cessate a preferenza di una criminalità più finanziaria sommersa e meno comprensibile.
Appunto per questo, ed essendo i Carabinieri serpenti, non come i parenti, ma perché in un clima tranquillo e freddo non si muovono, mentre invece agiscono escono dalla tana e mozzicano quando l’ambiente si scalda, è perciò possibile che se il generale ordine sociale e della vivibilità pubblica in Sicilia è migliorato con benefici complessivi, seppur volendo apparenti, agli stessi CC (o chi per loro), se in confronto a prima non succede niente di eclatante, potrebbe andare anche bene e non si sono proprio affaccendati in questa ricerca con il rischio di modificare un tale equilibrio. Quindi qualcosa da comprendere è cambiato ultimamente, e lo dimostrano le sceneggiature di giubilo che ci hanno rappresentato i CC dove non si è capito se abbiamo segnato alla finale della coppa del mondo o se hanno arrestato come capo di cosa nostra, addirittura Marco Tardelli. È perciò presto prendere per oro colato tutte le dichiarazioni di questi giorni.
Urticus, ma forse volevi sapere che ora è??
Altro che Ulisse di Joyce…☹
🤣🤣🤣