Hina, figlia mia

Noor ha la luce negli occhi: quella che ha visto nascere non è sua figlia, non biologica. Ma lui in qualche modo si sente padre. Quei tre chili di speranza partoriti da Bibi Arezu, trentadue anni afghana volata da Kabul a Roccaraso il 18 agosto scorso su un aereo della speranza, li ha visti uscire dalla madre, mentre in lingua afghana, lui che ormai è un mediatore della Croce Rossa, le traduceva i consigli e le indicazioni dei medici in sala parto.

Noor di anni 28, da 8 trasferitosi in Italia, prima a salvare vite in mare con le Ong in Sicilia, ora ad arginare e tradurre il fiume di dolore e di storie che vengono dal suo Paese, ha gli occhi lucidi e il petto gonfio davanti alla porta del reparto di Ginecologia dell’Annunziata, come fosse appena nata sua figlia.

Perché Hina, che in arabo vuol dire fragranza, è qualcosa di più di un fiocco appeso sul punto nascita che il ministero voleva chiudere. E’ il simbolo della speranza per il suo popolo e per quelli, in decine di migliaia, che in questi giorni si accalcano all’aeroporto di Kabul nel disperato tentativo della fuga, di salire su un autobus del cielo. Ancora pochi giorni di tregua, seppure.

Hina, la prima bimba afghana nata ieri in Italia dopo la proclamazione dell’Emirato Islamico dei Talebani, è in qualche modo anche figlia nostra. Della gente comune che già da ieri, a Sulmona, ha lanciato la gara di solidarietà per circondarla di affetto e doni, per compensare la frustrazione di un Occidente che si sente ed è responsabile del buco nero che in Medioriente si è riaperto. Un po’ come è stato per Tommaso Claudi, il “console” (o meglio funzionario) italiano, immortalato, come un Highlander – l’ultimo degli italiani -, mentre tira su dal muro spinato di Kabul un bambino.

Storie che faranno la Storia, quando se ne potrà raccontare, quando si avrà la forza per farlo e gli occhi sgombri dalle lacrime per mettere a fuoco l’inumana umanità.

Che oggi bisogna ancora andare a tentoni, cercando di leggere tra i filtri delle narrazioni di regime e quelli della stampa resa poco libera, a parole spezzate dal dolore e dai divieti di una cultura così lontana: “La donna non può parlare – ci dice Noor – non senza il permesso dei genitori e dei suoceri. Nessuno può vedere e parlarle a Bibi, a me è stato concesso di assisterla perché non c’era altra soluzione”.

Non ha parlato Bibi, neanche durante la notte scorsa quando il travaglio era intenso e avviato: ha atteso il giorno per chiedere aiuto, di essere portata in ospedale, quasi a non voler disturbare troppo. Che di vero dolore ne aveva già troppo dentro, con le immagini del marito fucilato perché collaboratore dell’Occidente, quelle della sua casa messa a ferro e fuoco, quelle delle tante Hina che non ce l’hanno fatta. Quelle che non ce la faranno.

5 Commenti su "Hina, figlia mia"

  1. Quante profonde verità. Straordinario pezzo

  2. Commovente, complimenti

  3. …dal 31 Agosto non ci sarà più nessuna Bibi e nessuna Hina che potranno gioire al sicuro in un paese civile e democratico…per la fuga brancaleonesca dei paladini dei diritti civili…

  4. Gianni Giovannetti | 27 Agosto 2021 at 10:39 | Rispondi

    Un pezzo di giornalismo che va conservato. Letto e riletto, per farci da bussola in un tempo di “inumana umanità “. Un pezzo di giornalismo che ci fa capire che il “particulare” appartiene all’ “universale” quando non si perde nei corridoi delle polemiche di paese e non ristagna nei rancori di bottega. Un pezzo di giornalismo che un giorno forse ci servirà a non farci vergognare del tutto del degrado che oggi ci circonda e che noi stessi abbiamo contribuito a diffondere. Se c’è una scuola di giornalismo degna di questo nome, è quella che si pratica ogni giorno sul campo: con la schiena dritta, la lingua libera, il cuore puro.

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