Sei mesi esatti da quel 29 gennaio e la Valle Peligna torna ad assistere sbigottita ad un altro caso di violenza sulle donne. Un negativo della foto scattata a Torino.
Non c’è un’emigrata in una bara, come era Teodora Casasanta, questa volta, ma un’immigrata in un letto d’ospedale, in condizioni gravissime, con lesioni allo stomaco duodeno e alla testa del pancreas. In fin di vita o quasi, anche se nella serata di ieri la donna è stata estubata.
Tentato omicidio è l’accusa con la quale Hysen Aliko è finito ieri nel carcere di Vasto, in attesa della convalida dell’arresto e dell’interrogatorio di garanzia che si terrà probabilmente oggi.
“Un uomo provato – dice la sua avvocata, Alessandra Vella – che è preoccupato per quanto è accaduto”.
Ma quel gesto violento non è il frutto di un colpo d’ira, né un gesto di cieca follia: è il risultato di una cultura radicata, sedimentata nei tempi e che coinvolge uomini e non solo a prescindere dalla loro appartenenza etnica e sociale.
La donna oggetto, il diritto di proprietà.
Ed è, ipotizzano gli inquirenti, un’azione studiata e premeditata; con quel coltello da caccia seghettato affondato per tre volte nello stomaco della sua ex moglie e un machete in auto. Con la violenza esplosa ieri poco dopo la mezzanotte sotto l’abitazione di via Montesanto dove Aliko ha cresciuto i suoi tre figli con la ex moglie, prima di separarsi.
“Una persona normale, un lavoratore” assicura il suo datore di lavoro, un imprenditore edile di Sulmona. Un uomo senza precedenti penali, né segnalazioni di polizia, racconta la sua fedina penale. Una delle tante “persone normali” dalle quali, d’improvviso ma non troppo, spunta la violenza assassina.
“Il fatto che fino a questo momento non c’erano state denunce o sentori di violenza non è detto che la relazione non fosse una relazione violenta – spiega Gianna Tollis, presidente de La Diosa che gestisce un centro antiviolenza -, anzi molto probabilmente lo era e l’apice di questa relazione violenta si è tradotta nell’atto di ieri notte che solo per puro caso non si è conclusa col femminicidio”.
E quante ancora storie in fotocopia ci sono tra queste due fotografie in negativo, in questa finestra dell’orrore che torna dopo sei mesi esatti in Valle Peligna: l’altra mattina all’ospedale di Sulmona è stata ricoverata una donna marocchina al nono mese di gravidanza, ospite di una casa rifugio insieme ai due figli e che nel ventre porta il terzo frutto di quella stessa violenza. E ancora gli allontanamenti e le botte, i divieti di avvicinamento ignorati, gli arresti e le misure cautelari che arrivano spesso troppo tardi e con troppa timidezza. Se ne sono contati diversi negli ultimi sei mesi: storie di quotidiana e taciuta violenza, che un giorno, d’estate o d’inverno che sia, esplodono “improvvisamente annunciati” in tragedie dalle quali è impossibile tornare indietro.
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