Per una Regione abituata da sempre a stazionare in “zona retrocessione” l’ultima classifica del Corriere della Sera, che colloca l’Abruzzo in coda per la spesa dei fondi europei, non sorprende più di tanto. Il cambio di passo che il presidente Luciano D’Alfonso aveva tanto decantato ad inizio legislatura di fatto non c’è. E non è un passaggio irrilevante perché lo “zero” in quella speciale classifica che indica la spesa del Fesr 2014-2020 (Fondo europeo sviluppo regionale) certifica una sconcertante omologazione della classe politica regionale incapace di un minimo sussulto quando è chiamata a governare. In questo senso, nonostante negli anni gli abruzzesi abbiano sempre scelto la discontinuità politica, la continuità abruzzese è diventata proverbiale su scala nazionale.
Il fatto però che l’Abruzzo abbia speso poco o niente sul fondo europeo Fesr ha una sua giustificazione. Non certo per la classe dirigente di questa Regione, che invece ha tutte le responsabilità, quanto per il dato statistico che disegna una regione paralizzata sul fronte dello sviluppo e della competitività delle imprese. Non è proprio così perché le aziende abruzzesi, pur tra mille difficoltà, riescono ad essere competitive a livello nazionale e internazionale. Si tratta, è vero, di pochi casi ma sufficienti per far capire che il passo dei privati non è in linea con quello della politica regionale. L’esempio più evidente è il bando nazionale promosso dal ministero dello Sviluppo economico su Innovazione e Ricerca. A quel bando hanno risposto in tutto, nell’area di Centro Italia, 55 aziende, di queste 50 sono abruzzesi.
La lentezza abruzzese sul Fesr, in parte riscontrata anche sull’altro fondo europeo l’Fse, è senza dubbio figlia dei ritardi accumulati dalla Regione nella programmazione del fondo. Il programma sarebbe dovuto partire nel 2014: il primo avviso pubblico è invece della fine del 2016. Non solo, le strutture regionali in questi due anni hanno dovuto recuperare il tempo perduto nella precedente programmazione, quella del 2007-2013, che alla fine del 2014 aveva certificato una spesa di molto inferiore alle aspettative con il reale pericolo di disimpegno, cioè ridare indietro all’Unione europea le risorse non spese.
In questo quadro di oggettiva difficoltà ci ha messo del suo anche l’amministrazione D’Alfonso. A cominciare dalla decisione di pre pensionare 152 dipendenti regionali svuotando di fatto gli uffici dell’ente, tra cui quelli che si occupano di programmazione europea; per proseguire poi con il cambio del vertice dell’Autorità di gestione, il servizio chiamato a gestire e a sovraintendere tutta la programmazione dei fondi europei, il cui responsabile, Giovanni Savini, dopo 18 mesi ha lasciato per far posto a Vincenzo Rivera.
Ed è così che quella che doveva essere nei proclami dalfonsiani la “Regione veloce” è diventata la “Regione lumaca” non solo nella spesa dei fondi europei ma anche nella gestione ordinaria delle competenze regionali. Perché se è vero che lo “zero” della spesa del Fesr è notizia a livello nazionale, l’ambito locale sconta la stessa natura di ritardi: dai pagamenti ai fornitori e ai beneficiari, all’armonizzazione del bilancio regionale secondo le nuove regole di contabilità pubblica; dalla chiusura dei procedimenti amministrativi di competenza regionale alla gestione delle emergenze.
Su questo fronte, questa è una Regione retrocessa già da tempo.
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