Passata l’emergenza, quella più dura della fase uno, del lockdown, dei ricoveri e dei morti, è l’ora, anche per l’Abruzzo, di pensare, anzi ripensare, alla sua organizzazione sanitaria. Perché una cosa ha insegnato questa pandemia, in Italia più che altrove, e cioè che i tagli alla sanità, l’accentramento in grandi hub di posti letto e specialistiche, non è sempre funzionale e non lo è soprattutto in zone orograficamente complesse come è appunto l’Abruzzo. L’assessora regionale alla Sanità, Nicoletta Verì, lo aveva detto e ammesso durante il periodo più difficile, quello dei cento e più contagi al giorno: “Dopo l’emergenza, l’organizzazione della rete ospedaliera va rivista”. Ad oggi, però, nulla si è mosso, e quel che si è mosso lo ha fatto sulla scia del vecchio impianto. La Regione, infatti, ha programmato a metà giugno il riordino delle rete ospedaliera in emergenza Covid, ma lo ha fatto rafforzando quei presidi, cosiddetti di primo livello, che già nei fatti erano degli hub, lasciando le periferie, a partire dall’ospedale di Sulmona, senza rinforzi e senza mezzi. Il piano anti Covid della Regione, infatti, oltre a concentrare a Pescara la maggior parte delle risorse e degli investimenti, con la fuga in avanti per accreditare il presidio pescarese come -unico- Dea di secondo livello, vede l’aumento di 92 posti letto, di personale e strumentazioni, nelle terapie intensive e subintensive, nelle pneumatologie e reparti di malattie infettive, degli ospedali dell’Aquila, Avezzano, Chieti e Teramo. Solo di personale per far fronte all’incremento dei carichi di lavoro autonomo e di collaborazioni o assunzioni a tempo determinato, sono stati stanziati quasi 4,2 milioni di euro. L’emergenza, così, ha finito con il marcare la distanza tra sanità di seria A e di serie B, dove tra i cadetti ci sono sempre le aree interne che non godranno neanche della ristrutturazione (anche dal punto di vista di personale) dei Pronti soccorso. Su territori come la Valle Peligna e l’Alto Sangro, la carenza di personale continua a restare cronica, gli ospedali non sono stati attrezzati neanche per rispondere alle direttive del Crea sulle zone grigie, ad esempio, mentre la medicina territoriale, che in questa seconda fase è fondamentale per il monitoraggio del contagio, è stata completamente abbandonata, visto che ampie fette di territorio non hanno neanche le Case della salute (gli ambulatori territoriali). La programmazione sanitaria, Covid a parte, da due anni di fatto non viene aggiornata, mentre la nuova rete ospedaliera, che avrebbe dovuto riaprire ospedali e punti di soccorso (così prometteva il centrodestra in campagna elettorale), è ferma ad una semplice bozza dal gennaio scorso che, tra l’altro, non si discosta quasi per niente dalle direttive della legge Lorenzin. Quando finalmente saremo fuori dalla crisi pandemica, gli ospedali hub potranno riconvertire i loro posti letto per la gestione sanitaria ordinaria, assorbendo inevitabilmente anche le forze dei presidi sanitari periferici. Lo squilibrio, se non si interverrà in modo deciso, anche nell’ipotesi che il governo italiano voglia ricorrere al Mes, sarà insomma destinato ad aumentare. Fino alla prossima crisi sanitaria, quando si tornerà ad invocare un servizio più equo e qualche santo in Paradiso.
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