Un tempo nemmeno troppo distante l’Acquedotto Medioevale di Sulmona, quella pregevole infilata di archi gotici di pietra lunare che incornicia la piazza Maggiore ai piedi delle imponenti cime dell’Appennino, eredità del glorioso e florido Duecento di Federico II, era coperto da edifici successivi di parecchi secoli.
Dal Corso Ovidio verso la Piazza Maggiore la vista era occlusa e il Morrone sul fondo poteva solo sbirciarsi attraverso le tre arcate scoperte sulla rampa che dal Corso scendeva al piano del plateatico, mentre il resto del tracciato dell’antico manufatto era incastrato fra le case.
Qualcuno aveva il privilegio quindi di tenersi in soggiorno, in camera se non un ripostiglio, un trancio di quel capolavoro di ingegneria dell’epoca d’oro cittadina, come un monumento domestico riservato ai pochi che ne avevano l’accesso. Chissà se ci avesse appeso i pensili della cucina, o i fili per i panni, se qualche ragazzino chiuso in cameretta ci abbia inciso un cuoricino col nome del primo amore o fatto un buco per il gancio di un porco scuoiato.
Una concezione più barocca aveva voluto che la meraviglia della piazza ai piedi del Morrone si scoprisse d’improvviso, come il Colonnato berniniano di S.Pietro prima della rimozione della Spina di Borgo, metafora del lungo purgatorio ostruito da superare attraversando un varco che aprisse finalmente allo stupore della contemplazione massima.
Non si trattava di pessima edilizia del dopoguerra, tale da giustificarne la necessità di rimozione, come una qualsiasi odiosa superfetazione che rovinasse il paesaggio: no, quei palazzi arrampicati sulla traccia storica erano residenze borghesi di tutto rispetto, parte della successione di fronti che fanno della passeggiata lungo il corso principale una continua scoperta di scorci e visuali, balconi, mensole, portali e cornicioni di ogni epoca.
Col senno di poi ancora possiamo chiederci se fosse preferibile l’approccio barocco al senso di quel sottile diaframma di sesti acuti che ampliano l’orizzonte passeggiando in quota una decina di metri più su e permettono a più persone di godersi dall’alto la Madonna che scappa la mattina di Pasqua.
Sarebbe un dibattito interessante e incessante se scevro da sovrastrutture ideologiche fra detrattori e fautori, oppure, di converso, pippe infinite fra architetti conservatori e artisti più visionari, ma senza soluzioni oggettive, nessuno potrebbe attribuirsi una ragione universale.
Fatto è che, a prescindere dai convincimenti personali che danno corpo all’immaginario collettivo, la città cambiò a metà dello scorso secolo con un’iniziativa più che coraggiosa assolutamente impopolare e utopica agli occhi di un contemporaneo.
A pensarla oggi – provateci- un’operazione di tale portata sarebbe impensabile. A prescindere delle risorse che ci sono volute, al tempo ottenute tramite un finanziamento statale, della gloriosa Cassa del Mezzogiorno che oggi, se esistesse, sarebbe agognata per opere più prosaiche e più rispondenti ai bisogni primari di servizi della città.
Nessuno si sognerebbe – e il termine sognare mi sembra appropriato – nemmeno sotto ebbrezza febbrile un intervento così distruttivo e così definitivo.
Il reperto storico oggi ha il suo valore nella sua stessa sussitenza, per il fatto cioè che è giunto fino a noi, poco importa se nell’antico splendore o impietosamente ridotto, come tante delle nostre bellezze, ad ammassi di muri rovinati e infestati da erbacce se non sepolti sotto una tubazione o un cavidotto, che nulla dicono più della meraviglia che suscitavano e che, con un atteggiamento ipocrita, ammantiamo di sterile retorica mentre lasciamo che il degrado li consumi.
Eppure, a guardare le foto storiche, quel che colpisce non è nemmeno la scelta più estrema quanto la constatazione che la città affrontò la questione come prioritaria rispetto alle esigenze primarie che premevano quella comunità forse più di oggi. C’era -forse nemmeno consapevole- una visione della città che non era solo un’offerta di marketing turistico ma il prodotto della voglia di cambiare prospettiva, a costo di dover sacrificare la strada antica per intraprenderne altre dalle risultanze incognite.
Una piccola cittadina di provincia dimostrava l’ardire e l’ardore di proiettarsi in un futuro scevro da preconcetti ideologici e ancor di più da funeste e nefaste previsioni del baratro che sembra attenderci domattina quale epigono dell’incessante decadenza, barile senza fondo.
Oggi scrivere queste righe sembrerà ai più una brutta bestemmia, ma quei tempi di improvvide scelte smuovono nostalgia più che per i frutti che oggi ne cogliamo per l’entusiasmo che li sostenevano, segno della consapevolezza che si potesse ancora determinare il proprio futuro .
Un futuro intendo che non fosse soltanto questa insopportabile litania di lamenti per ciò che non è stato, non è e mai potrà essere.
Antonio Pizzola
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