Di quotidiana distrazione per chi guarda da dentro, di tristi presentimenti per chi osserva da fuori.
Base cartonata da isolamento, zainetto risicato per cuscino, sacco a pelo e per i più anziani, carrello da supermercato con cianfrusaglie e scarpe a piè sacco.
Sono riuscito a stilarne una statistica giorni fa, di rientro dalla stazione Termini, in cerca di mezzi pubblici notturni: una successione composta e regolare che dalla pensilina della stazione si infilava per centinaia di metri, cambiava marciapiede, diventava più rada, poi a casi isolati sopra una griglia d’areazione, sotto una rientranza, un portone profondo.
Un serpente senza sonagli di precarietà sociale snodato per i piani terra che s’incunea fra le strade, cala sotto la metro, risale a fine corsa sulle scale mobili ferme, striscia lungo i muri insozzati di spray, entra nei notturni in attesa di ripartire, per cullarsi sulle buche stradali capitoline nel caldo umido e puzzolente del mezzo, nel sonno a singhiozzi da capolinea a capolinea.
I più dormono rannicchiati come residui di un’inondazione del Tevere poi rientrata, gli insonni invece a torso fuori dal sacco sembrano bruchi in procinto di sfarfallare: guardano fissi lo stipite di fronte o raramente si mettono a crocicchio con altri, dividendo scatolame semiaperto, buste di tavernelli e birre vuote.
Non tutti colorati, però come mainstream racconta, non solo afroasiatici con iphone e 5 stelle, tanto che si possa generalizzare un se ne tornassero a casa loro: più della metà sono di casa e di cosa nostra. Qualcuno perfino tendenzialmente normo-sociale, senza patacche sul sacco o macchie antiche, come a suggerire una certa freschezza di approdo, un misunderstanding temporaneo, un report da cronista curioso nella dimensione aliena.
I rari passanti, concentrati ad andare dove debbono andare, evitano di guardarli, come con le miodesopsie sulle pupille che preannunciano l’emicrania. Vanno dritti perché niente di interessante potrebbe derivarsi da una deviazione o da una contaminazione con quel mondo alieno, pure un mi fa accendere? sarebbe presagio di epigoni nefasti: una coltellata al braccio, un contagio da virus stranieri e olezzi ripugnanti, il resto della notte a verbalizzare al lampeggiante blu tutta la verità.
Così gli uni fissi altrove, gli altri concentrati nella loro distrazione quotidiana, finisce che nessuno guarda nessuno, estranei e divisi gli uni agli altri dal vetro spesso di un acquario che da ciascuna delle parti si immagina della parte opposta.
Di quotidiana distrazione per chi guarda da dentro, di tristi presentimenti per chi osserva da fuori.
Ci sono sempre stati i barboni, soprattutto alla stazione Termini, vero, così come è vero che una sera in cerca di un mezzo che ti riporti al calduccio di casa non può determinare statistiche, solo suggestioni.
Ma la suggestione che lo scenario notturno urbano metropolitano evoca a chi non è più abituato negli anfratti più inusuali dell’acquario, non è semplice malinconia.
C’è un misto di preoccupazione per le sorti loro e nostre, di fastidioso sibilo per una debacle di civile convivenza alle porte, di tristezza per la dignità minima scesa al cesso , di pensiero riflesso che ormai siano parte del paesaggio come i pezzi di capitelli in rovina ai Fori. E, in percentuale rispetto ai rari passanti, più numerosi.
La sola scarsezza di risorse o la pochezza di gestione a questo stadio come scusa non reggono nemmeno più, ci si augura che tanta disperazione serva a qualche scopo e risponda a qualche strategia satanica.
Perché se così non fosse, toccherebbe accorgersi che il vetro divisorio dell’acquario che divide i due mondi deve essersi crepato, il travaso nelle nostre stanze è già a buon punto: e, mi sembra di vedere, anche il nostro nelle loro.
Antonio Pizzola
.
Commenta per primo! "L’Acquario Urbano"