-Se i tuoi amici si buttassero dalla finestra, ti ci butteresti anche tu? Pensa con la tua testa, non devi fare tutto quello che fanno gli altri.
Questa è la risposta che ci veniva data dai nostri genitori, quando chiedevamo loro il permesso di partecipare a una festa a cui sarebbero andati tutti, oppure di avere i jeans di una tale marca, perché ce l’avevano tutti.
Noi sapevamo che i nostri amici non avrebbero mai oltrepassato il limite del davanzale, perché a quell’età ci si affacciava alla finestra non certo per buttarsi di sotto, ma per controllare il tempo, per osservare il mondo o per guardare la persona che ci interessava. No, non avremmo mai seguito i nostri compagni nell’eventuale salto: con loro volevamo vivere e divertirci, non certo morire.
La nostra adolescenza poi è finita, ma in realtà non abbiamo mai smesso di vestirci tutti alla stessa maniera e di andare alle stesse feste, dove balliamo identiche coreografie, che qualcuno ha creato al posto nostro. È solo cambiata la priorità di tali desideri, che ora stanno in coda a mille altri pensieri.
L’essere diventati adulti non ci ha cambiato poi tanto, se non nel fatto che abbiamo preso noi il posto di quelli che criticano i ragazzi per il modo in cui si vestono, parlano e passano il tempo libero.
Altri anni sono trascorsi ed è sopraggiunta la maturescenza che, essendo un’età di mezzo esattamente come l’adolescenza, è caratterizzata dai tipici cambiamenti fisici ed emotivi, che accompagnano ogni passaggio da una fase della vita all’altra.
Anche a questa età è facile cadere nella crisi, con la sensazione di non essere mai abbastanza (bravi, forti, apprezzati e capiti) e la voglia di ribellarsi per affermare il proprio essere. Esattamente come accadde tanti anni fa, le trasformazioni che ci rivela lo specchio ci disorientano e non ci riconosciamo più. Di nuovo abbiamo paura del futuro, che però ora sappiamo sarà più breve del passato. Il tempo scorre velocemente e inesorabilmente e ci rendiamo conto che troppe voci non abbiamo ancora spuntato dalla lista degli obiettivi da raggiungere, delle cose da fare, dei posti da vedere.
Ma ai nostri figli queste cose non le diciamo e ci fingiamo forti e sicuri, ostinandoci a criticare la loro generazione che sta sempre stravaccata, con il telefono in mano, ad ascoltare brutte canzoni.
Sono davvero facili da contestare questi giovani sfrontati, colorati, perennemente connessi, sempre in contatto fra di loro, h24, a tenersi compagnia, a emularsi, alla ricerca di “like”, divertimento, condivisioni e tutte le altre cose che non trovano in casa.
Eppure da questi ragazzi noi “mezzani” non ci differenziamo poi così tanto.
Siamo stati noi ad aver insegnato loro, dando l’esempio, a essere rissosi e bulli, perché guai a non avere l’ultima parola in una discussione o a lasciarsi sfuggire l’occasione per sfottere qualcuno, facendo surf sulle ondate di odio e superficialità.
Noi non ci stravacchiamo sul divano, ma solo perché il mal di schiena non ce lo consente: ci sediamo compostamente, con il telefono in una mano e il telecomando nell’altra, a televotare e a far salire certi audience, affinché il palinsesto televisivo non cambi nei decenni, altrimenti sai che noia a fare zapping solo fra telegiornali, documentari e film d’autore, senza spezzare la monotonia della vita con una lite, una volgarità o una parolaccia che impenni lo share.
Noi, i “forever young” a tutti i costi, ci vestiamo come i nostri figli, pur non essendo belli come loro. Scleriamo davanti a ogni problema, parliamo per citazioni estrapolate da libri che non abbiamo letto e viviamo di rancori, pretendendo educazione e rispetto dai giovani, ma urlando offese puerili a chi osa avere un’opinione diversa dalla nostra, perché oggi va di moda parlare di pancia: le buone maniere e le belle parole sanno di vecchio.
Noi siamo la generazione che si crede migliore di quella attuale, solo perché è stata bambina prima dell’invenzione di internet, come se fosse davvero quello il problema e non la disillusione e il disincanto che stanno saturando l’aria, togliendoci il respiro. Il clima di disaffezione alla vita dilaga e rischia di soffocarci più dell’inquinamento atmosferico.
Ci siamo adeguati a ogni tipo di modernità e abbiamo smesso persino di guardare la Luna: al massimo la fotografiamo, senza riuscire a catturarne il fascino. Eppure lei si ostina a brillare nel cielo per tutti, per tutte le generazioni, da sempre, piena o a spicchi, manifesta o nascosta, nelle notti giuste e in quelle sbagliate. È la stessa Luna che guardavano i nostri avi. È la stessa Luna che guarderanno i nostri nipoti.
Sta sempre lì, da miliardi di anni, discreta e affascinante, solitaria e silenziosa, ad accompagnare il nostro cammino attorno al Sole, ad illuminare la notte senza accecarci, ispirando l’arte e il sentimento. Non ci ha mai chiesto niente in cambio, se non un’occhiata distratta di tanto in tanto.
E, ogni volta, quella occhiata ci rigenera. Ci ritroviamo, rientriamo in sintonia con noi stessi, con quello che eravamo prima che iniziassero le trasformazioni, le contestazioni, le ribellioni e le delusioni; quando guardare la Luna era più facile, perché niente era in grado di distrarci da ciò che contava davvero e, se ci perdevamo un attimo, bastava alzare gli occhi al cielo, cercando quella presenza materna pronta a indicarci la giusta direzione.
E l’abbiamo trovata sempre lì, ineluttabile. Non ha mai avuto bisogno di prendere tempo per sé stessa, non si è mai arresa, non ci ha mai giudicati, non ha avuto crisi di passaggio, tranne qualche eclissi subito risolta. Non ha mai cercato di cambiarci o di impartirci lezioni, neanche quando abbiamo cercato di rubarle la magia, calpestandola con la scusa di fare un grande passo per l’umanità.
gRaffa
Raffaella Di Girolamo
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