Ho sempre avuto problemi con i complimenti, con quel “Grazie” che mi riesce tanto difficile dire e che preferisco sostituire con frasi imbarazzate, mentre cerco di dirottare altrove l’attenzione.
Forse perché è tutto tremendamente relativo ed è chiaro che, per ogni apprezzamento manifesto, ci sono almeno dieci dinieghi occulti che mettono in discussione il nostro modo di essere, fare, parlare e pensare.
Piacciamo a poche persone e alla metà di queste piacciamo per un solo particolare.
Piacciamo tanto a chi di noi sa poco e conosce soltanto i sorrisi e la cortesia affettata che riserviamo agli estranei, quando cediamo loro il posto in fila alla cassa del supermercato, aspettando pazientemente che arrivi il nostro turno senza sbuffare, senza protestare, senza chiamare il direttore.
È molto più difficile piacere a chi invece ci è vicino tutti i giorni e si becca ogni sfaccettatura del nostro carattere, pure le scatole girate quando la luna è storta, siamo scesi dal letto con il piede sbagliato ed è finito il caffè.
I complimenti che riceviamo fuori casa lusingano, certo, però imbarazzano, perché è difficile credere di meritarli fino in fondo e soprattutto che saremo in grado di non deludere quella stessa persona in un prossimo futuro, alla prima giornata no: una di quelle in cui, solo perché piove, non abbiamo voglia di sorridere o parlare e riusciamo a fare soltanto disastri, di cui non intendiamo prenderci la colpa.
Naturalmente non sto parlando di apprezzamenti estetici: quelli valgono solo se fatti da nostra madre, mentre guarda una foto che ci ritrae da neonati. Tutti gli altri sono falsi, inutili e spesso dannosi.
Gli elogi a cui mi riferisco sono quelli che riceviamo per come siamo, per ciò che facciamo, per il contributo che portiamo alla vita degli altri e al mondo. Quel “Complimenti per la trasmissione”, che arriva quando meno ce lo aspettiamo, feedback non richiesto che poggiamo sul cuscino per addormentarci più in fretta la sera, quando il buio di tutte le ombre della giornata mette alla prova ogni nostra certezza e porta la paura.
Da adulti sentirsi bravi davvero è difficile, in quanto dobbiamo essere troppe cose per riuscire bene in tutte. Possiamo essere ottimi amici, ma pessimi genitori, bravi figli, ma cattivi cittadini, volenterosi lavoratori, ma compagni disastrosi, cuochi sopraffini, ma negati alla guida.
Piacere del tutto a se stessi è un’utopia, al contrario è facilissimo detestarsi. C’è sempre un campo in cui siamo poco portati, che certi giorni ci fa sentire falliti, rischiando di farci dimenticare tutte le cose che invece sappiamo fare bene, inghiottendoci nel baratro del senso di inadeguatezza, che tanto ci ricorda certe interrogazioni ai tempi della scuola. Quel “quattro” sul diario da far firmare a casa, come prova concreta della nostra inettitudine.
La timidezza impedisce ad alcuni pensieri di essere detti, ma l’insicurezza è ben più disastrosa, perché addirittura impedisce ad alcune cose di esistere: genera un vuoto nel quale precipitano, insieme ai complimenti, alle parole gentili e agli arcobaleni che non riusciamo a vedere, anche i sogni, i progetti e le strade che non percorreremo mai.
Dopo tanti anni, a forza di osservarlo, odiarlo e tentare inutilmente di riempirlo, mi sono accorta che quel vuoto fa parte di me, è necessario affinché io esista, mi completa, proprio come fa il buco con la ciambella, che senza quella mancanza di impasto centrale sarebbe tutt’altro: un tortino.
Grazie a questa nuova coscienza e all’accettazione del mio essere (ciambella), ho imparato finalmente a dire “Grazie!” come risposta a un complimento, che lascia il tempo che trova, certo, ma è comunque una lieve carezza sul mio cuore -posizionato proprio nel centro di quel vuoto in mezzo-, che va a mettersi accanto a tutte le cose belle a cui non ho mai creduto, perché in me vedevo solo le mancanze, scambiandole per una voragine dalla quale guardavo gli altri e li trovavo perfetti, invece erano solo tanto diversi da me.
Io ciambella, loro tortini.
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