Una goccia di splendore

Gli italiani li capisci al bar la mattina. 

Basta sedersi al banco e godersi la processione di bizzarrie che il barista colleziona senza battere ciglio, amorevole come il marito coi capricci pre-parto della consorte, accondiscendendo alla girandola di personalizzazioni del menù, semplice semplice, sulla lavagnetta alle spalle . Forse solo gli abituè, unici ad attenersi ad un apparentemente banale “ il solito, grazie”, farebbero pensare ad una consuetudine misurata ma poi, approfondendo, si rivelano anche loro in arzigogoli di gusto dalle sfumature barocche.

Un caffè in un bar tricolore può essere nero, doppio, lungo, ristretto, schiumato, espresso, corretto, deca, crema, con varianti di temperatura freddo, tiepido, bollente mi raccomando, shackerato, americano, greco, alla turca, alla moca, napoli, fallo prima del cornetto, lo sai che lo voglio dopo, insieme, già zuccherato, montamelo marocchino, avvocato, oggi mettimici una pallina gelato di crema, anzi no cioccolato, complicandosi, con l’aggiunta di latte, in cappuccino a sua volta nero, chiaro, non troppo carico, cremoso, ma senza schiuma, alla soia, con una spolverata di cioccolato, d’orzo, bollente, non troppo, una schizzatina, bello carico, col cuore di panna, o, ancor peggio per il database del banconista:

Tu lo sai come.

Mi capitò tempo fa la voce “caffè con le coccole” a due euro e cinquanta, ma, per quanto mi incuriosisse, non avrei mai potuto assaggiarlo senza l'onta poi alla casa di confessarmi coccolo come il trottolino del duo Minghi/Mietta.

I tedeschi, più degli altri stranieri, ci osservano fra il divertito e il pittoresco, loro che a male pena distinguono un lungo da un espresso– che sulle loro lavagnette a noi pare comunque una bestemmia- mentre in trattoria dopo lo spaghetto cozze e vongole e l’abbacchio a scottadito si lanciano in un conclusivo latte machato, manco fosse l’amaro del capo.

Come potrebbero capire il neurone recettore latino che si attizza alla perversione di un bicchierino di vetro al posto della consueta tazzina di ceramica, in più, solo per mandare giù un sorso di fluido che dura 4 secondi ?

Del resto, va detto, neanche noi potremmo mai adeguarci al rito sassone del caffè americano, quella piscina infernale di pece ardente in quel bicchierone di carta usa e getta. A spasso, nel parco, nello shopping, a lavoro, perfino dentro gli obitori di CSI mentre sezionano cadaveri. Come tanti Linus con la propria coperta.

Qui, da Torino a Palermo, ogni chilometro un capriccio di seduzione all’ospite e di pretese scomposte: arriviamo a voler distinguere, con vivisezionamento di dettagli, miscela da miscela, macchina produttrice da macchina produttrice, barista da barista, quartiere per quartiere, nella personale mappatura della top ten dei migliori esempi distribuiti su tutto il pianeta: 

Ah, dimmi quel che ti pare, ma la miscela del bar vattelapesca a destra di quell’altro che fa schifo,  è tutta un’altra storia.

Siamo viziosi oltre che viziati, sofisticati nel bisogno, a volerne trovare un’accezione positiva, un popolo di inguaribili eccentrici disobbedienti e creativi, che vogliono, ciascuno per sé, fare a cazzo proprio.

Ora, se la regola ci è ostile, se ci ammoscia lo scialbo appiattimento del quotidiano uguale a se stesso, se ci eccita di brividi erotici solo quanto dovrà consumarsi nel palato barocco, come fa un popolo così viziato ad accettare un’imposizione sovranazionale che vorrebbe umiliarlo ad un tramezzino pre- incellofanato fra una rosa di panini farciti ancora caldi usciti dalle mani nude di un pizzicarolo che col mignolo si netta l’orecchio?

Normato per noi, refrattari e incontentabili nel buco nero stesso della nostra coscienza, è quanto per ciascuno è normale.

E allora? Come si fa a normare una convivenza sociale così geneticamente refrattaria?

Farne tesoro, mi sembra l’unica possibilità. Fare dell’insopprimibile propensione al guizzo anarchico una trasposizione in Pil. In fondo siamo figli -più o meno riusciti- degli scarabocchi di Leonardo, che tracciava ali per superare la gravità, ruote dentate ed eliche senza fine per correggere la natura, motori, dighe, ponti senza appoggi e prospettive per sfidare le infinite dimensioni impossibili su un banale foglio di carta.

Ci vorrebbe uno che se ne occupa. Un ministero alla Creatività Genetica, alla Genialità Rionale, all’Eccellenza Condominiale, all’Improvvisazione Jazz rigorosamente site specific.

Che sappia connettere esperienza ad esperienza, unicità ad unicità, eccellenza a genialità, non per vendere al mondo una scialba fotocopia di modelli industriali e finanziari alieni, non un retorico made in italy senz’anima, ma per regalare al mare magnum dell’appiattimento globale un’improvvisata goccia di splendore (*).

(*) Come la cantava il Poeta, genovese come il pesto senza pomodorini.

Antonio Pizzola

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