Il fatto non sussiste dice il giudice del tribunale di Sulmona Marco Billi, non penalmente almeno. Perché l’assoluzione ieri dalle accuse di adescamento di minore e molestie per Franco Di Sante, dirigente sportivo della squadra di calcio femminile di Castelnuovo Vomano (in provincia di Teramo), non toglie gravità, dal punto di vista educativo almeno, a quanto da lui stesso ammesso nel corso del processo.
L’uomo, sessantenne, era accusato di aver adescato e molestato telefonicamente una sua giocatrice di quindici anni di Sulmona, alla quale in un crescendo di confidenza tra il maggio e l’agosto del 2015 aveva inviato decine e decine di messaggi, dal “quanto sei bella” al “se me la dai ti porto a Coverciano”.
“Era solo un modo di scherzare” ha spiegato l’imputato al giudice e per dimostrare quello che era il suo “modo di fare” aveva chiamato a testimoniare anche le altre madri delle calciatrici della squadra, le quali candidamente avevano ammesso che era solito, lui, toccarle e usare quel linguaggio.
Uno “scherzo” che i genitori dell’atleta sulmonese non avevano gradito, quando ad agosto di quattro anni fa si imbatterono casualmente nel telefonino della figlia, scoprendo quella serie imbarazzante di messaggi e denunciando subito dopo alle autorità competenti i fatti.
Il processo si è concluso ieri con l’assoluzione del dirigente (il pubblico ministero aveva chiesto una condanna a due anni di reclusione), ma l’interrogativo sul clima cameratesco e sessista che vige in alcuni ambienti resta: “La ragazza frequentava quella scuola calcio da quando aveva dodici anni – spiega l’avvocato di parte civile, Cristina Colantonio – i genitori l’avevano affidata a quelle persone, convinti che lo sport fosse educativo”. Ma questo, evidentemente, almeno per la famiglia sulmonese, non era esattamente l’esempio dei valori che lo sport dovrebbe inculcare ai ragazzi. Anzi alle ragazze.
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