La storia è di quelle da romanzo di spionaggio, ad immaginarselo nel retrobottega dell’orafo quel garzone che sognava una vetrina tutta sua. A rubare segreti e mestiere, per poi superare il maestro.
La storia però non è di quelle a lieto fine, ma quella di una lite finita sui banchi del tribunale per la seconda volta e che, per la seconda volta, ha visto condannato l’ex “garzone”, diventato orefice, per il reato di contraffazione di brevetti.
La storia è quella dei gioielli “Amorini”, un angelo d’argento, oro e pietre preziose che, vuole la tradizione scannese, i futuri suoceri regalavano (e regalano) alla sposa sin dal 1700 per rafforzare l’amore e la volontà di vivere insieme.
Un gioiello che nel 1999 la famiglia Di Rienzo brevettò, depositando al ministero il modello e, in qualche modo, mettendo il sigillo su una tradizione che, in quanto tale, molti reclamano essere patrimonio comune.
E invece, comune, quel patrimonio non è: non così come lo aveva disegnato Nunziatino (o ancora prima da Armando) Di Rienzo negli anni Trenta e che poi i figli registrarono al ministero. Così nel 2014 lo stesso titolare del brevetto passando davanti ad una vetrina del Megalò, aveva scoperto i “suoi” gioielli in vendita, gioielli che in realtà non erano i suoi. Perfettamente imitati nei minimi particolari, tanto da presumere che fossero stati fatti con lo stesso stampo di sua proprietà.
L’orafo entra nel negozio, prende informazioni sulla fornitura e poi manda un conoscente ad acquistare il pezzo, venduto anche ad una cifra inferiore della sua.
Scatta così la denuncia che porta al sequestro di stampi e monili nella oreficeria dell’ex garzone diventato orefice, Cesare Mancini, l’altro giorno condannato dal giudice del tribunale di Sulmona ad un anno di reclusione e 3.500 euro di risarcimento danni.
Una sentenza che segue ad un’altra, sempre per il reato di contraffazione, e che vide già soccombere Mancini nel 2006.
L’Amorino, quell’Amorino, insomma, non è cosa da tutti, patrimonio certo della nobile e rinomata tradizione dell’oreficeria scannese, ma patrimonio di cui non tutti possono disporre.
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