Dovrà restituire oltre 300mila euro più interessi e spese legali al suo cliente perchè riconosciuta colpevole di aver violato la normativa sull’anatocismo, ovvero per aver capitalizzato gli interessi passivi su tre conti corrente che erano stati aperti dalla ditta Salvatore&Di Meo di Sulmona. La Banca nazionale del lavoro è stata condannata dal giudice del tribunale peligno, Giuseppe Ferruccio, al termine di una lunga e difficile battaglia legale in sede civile, nella quale la ditta sulmonese, difesa dall’avvocato Alessandro Margiotta, aveva lamentato il trattamento illegittimo su un prestito, ovvero su un fido bancario, di 450 milioni di lire fatto nel 1999 e chiuso dopo quasi quindici anni di rate pagate e contestazioni di addebiti.
La banca era stata accusata dal correntista anche di aver applicato interessi usurai, elemento però, questo, non ritenuto accoglibile dal giudice. Il tribunale ha ritenuto tuttavia di accogliere le contestaioni relative all’anatocismo con interessi che venivano capitalizzati trimestralmente per i debitori e annualmente per i creditori. Pratica in realtà legittima fino al 2000, quando una legge dello Stato vietò questo sistema, imponendo alle banche non solo di adeguarsi anche ai contratti in essere (anche se sottoscritti prima della legge), ma di dare alle parti opportune e dettagliate informative al proposito che, secondo il giudice, sono venute meno in questo caso. Nulla poi è stata considerata anche la cosiddetta commissione di massimo scoperto, tanto più che essa era del tutto indeterminata nelle percentuali e nelle applicazioni. Così come fondata è stata ritenuta la contestazione relativa alla variazione uniletrale delle condizioni economiche che regolavano i contratti, anche in considerazione del fatto che sui tre conti corrente aperti erano stati applicati interessi diversi.
Si tratta di condizioni e clausole che spesso vengono applicate dalle banche e che non tutti e non sempre sono in grado di contestare: quella del credito, nonostante le leggi intervenute a tutela dei clienti, resta spesso una specie di giungla dove è molto facile perdersi ed è difficile riuscire a trovare il sentiero giusto per uscirne. A volte, però, come dimostra questa sentenza, vale la pena “mettersi in cammino”.
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