Come le vecchie barzellette, comincia con c’erano una volta un italiano, un immigrato e un leghista.
L’italiano, che non era mai stato orgoglioso di sentircisi, si trovò improvvisamente a rimarcare la sua identità davanti all’immigrato. Convinto dal leghista che continuava a fomentarlo, però, interrogandolo a proposito di quale identità, non riusciva a cavarne un ragno dal buco.
Certo, potevano vantare la gloriosa storia comune, ma dovevano fermarsi al 1861, che il prima si perdeva in un indistinto pastone da cui sbucava solo la testa di Alberto da Giussano, sicuro italiano in quanto di nome Alberto.
Ma il leghista non era solo, alle sue spalle tutto un ovile di orgogliosi rivendicatori di derivazione identitaria. Fra questi, gli unici che riuscivano a rintracciare un comun denominatore erano gli ex fascisti, il cui mito ispiratore però, al bando dalla nascita della repubblica, non valeva manco un punto.
C’erano anche gli astensionisti, affaccendati su questioni più urgenti da domandare alla Rete, si accontentavano di qualsiasi esito, come al ristorante fra telline e vongole.
C’era chi insisteva sulla religione, ma anche qui, a farsi bene i conti, c’erano più italiani che credevano in Totti e in Brezny che in Dio.
Il Papa allora? Beh, come valore identitario, soprattutto da quando c’era l’abitudine di eleggerli extracomunitari, restava un ricordo da documentari di RaiStoria, un po’ come la Ferrari con i piloti di Maranello e la Juventus con Cuccureddu e Anastasi.
E la cultura, s’inalberava tutto l’ovile in coro, l’invidiata cultura nazionale dove la mettiamo? Già, gli rispondeva l’italiano, dove ce la mettiamo? Per timore di trascendere nelle risposte anche il fattore cultura venne tralasciato.
La lingua. Ecco un valore riconoscibile, l’italiano studiato a scuola: ma a trovarlo un nativo capace di una consecutio congiuntivo-condizionale, si fa prima con uno straniero che lo studia sul serio.
La pizza! gridavano i casapoundini dalle retroguardie, ma anche la pizza, ormai si sapeva, la fanno gli egiziani chiusi di notte nei forni, e pure buona. I mandolini li importiamo da Taiwan, di baffi neri ce ne hanno più in Kazakistan, sul vino, ammesso di potersi vantare dell’alcol, ne vendono di più gli australiani.
La virilità latina manco a nominarla che facciamo più bella figura.
Perfino la mafia, una volta appannaggio esclusivo da esportare all’estero, non è più così esclusiva, surclassata dalle omologhe russe, giapponesi, sudamericane, dai terrorismi planetari e dalle multinazionali della guerra, finita pivella in coda per vittime e stragi.
E niente. L’identità nazionale da salvaguardare ad ogni domanda si sviliva vieppiù, per finire umiliata dal titolo della legge sul cui significato nessuno si sbilanciava, IUS SOLI, che, giova ricordarlo, è latino e non correttore automatico di google.
Così quando, non per affrontare il problema -che era già troppo tardi da un pezzo- ma per conquistarsi elettori freschi incardinarono in parlamento la legge sulla cittadinanza ai figli degli stranieri, si raggiunse l’apoteosi.
Politicanti, giornalai, professoroni e massa social-critica, apocalittici veri e improvvisati, a gara a chi sparava random ragioni, rischi e minacce nascoste dietro la legge che, in realtà, prendeva solo atto – e in estremo ritardo – di quanto già c’era.
800 mila ragazzini figli di immigrati già studiano Manzoni, si salutano con bellafrà, tifano la nazionale, cantano gli Amici della defilippi, pagano permessi e tasse, mangiano pizza e tramezzini. Riottosi a casa a parlare la lingua dei genitori come una volta noi i dialetti dei nonni, sono gli amici dei nostri figli e nipoti, tutto d’un tratto estranei a quanto hanno imparato e vissuto dalla nascita.
D’un tratto potenziali terroristi, barboni, spacciatori, violentatori, fondamentalisti che non aspettano altro che la carta d’identità da abbandonare sul luogo della strage che prima o poi compiranno.
Finchè, su tutto, come il velo pietoso che cala a spegnere ogni amenità, la performance del duo Alemanno-Gasparri, in due non un neurone nè una fedina penale sana, a manifestare perchè fra 97 anni esatti, non uno di più né di meno, ci saranno più bambini stranieri che italiani.
Magari, già che c’erano, a prevederlo una ventina d’anni fa ancora aveva un senso, ma oggi, con quel megafono ripescato dalla cassapanca dei pestaggi d’ università, più che richiamare all’identità nazionale, la coppia fa ridere di una malinconia rassegnata.
Come con la barzelletta del nonno a natale, c’erano un italiano, un immigrato e un tonto, quando, giunti al finale ormai risaputo, in un impeto da colpo di scena il nonno si cava di bocca la dentiera e la fionda nella brocca del vino.
Amen.
Antonio Pizzola
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