Durante gli incontri, la psicologa si fece spiegare tante volte i motivi per cui mi sentivo inferiore alle altre donne. Io la guardavo: i motivi li aveva addosso tutti lei che era bella, laureata, elegantemente sobria, dolcemente determinata, certamente moglie e madre esemplare e con un lavoro basato sull’aiuto al prossimo.
Le nostre chiacchierate avevano un tono amichevole, parlavamo di tutto e, nell’imminenza delle feste, le raccontavo di party a tema, pignatte, spettacolini, torte buffe, travestimenti, regali improbabili e sorprese, vergognandomi per il mio essere frivola e leggera, per la mia passione verso le amenità, i divertimenti e il chiasso.
Un giorno si tolse gli occhiali, scostò la sedia dalla scrivania e mi disse: -Pensi che tutte le mamme facciano questo? Io, ad esempio, non ce la farei e non per mancanza di tempo, ma di fantasia. I tuoi figli sono molto fortunati ad averti.
Secondo lei, quelli che io ritenevo difetti erano in realtà i punti di forza del mio carattere; sosteneva che io possedessi un dono che avrei dovuto mettere a disposizione degli altri, invece di vergognarmene. Intanto Davide cresceva sano, forte e sereno e io riuscivo finalmente a vedere il capolavoro che avevo fatto, sensazione propria di ogni madre, certo, ma forse solo io posso sostenere che MIO FIGLIO È MERAVIGLIOSO, NONOSTANTE ME.
Sono passati dieci anni da quel periodo e ora mi sento più sicura: sicura di possedere qualcosa che attira sorrisi e simpatia. Ho capito che non sono diversa da tutte le altre donne, visto che in molte si ritrovano in ciò che scrivo: questa è evidentemente la prova della mia normalità…o della dilagante mattia.
Sono guarita perché ho smesso di leggermi dentro in silenzio, senza capire ciò che c’era scritto. Sono guarita perché ho cominciato a leggermi ad alta voce e ho avuto la fortuna di essere ascoltata da qualcuno che capiva. Sono guarita quando ho alzato la testa e ho incrociato gli occhi degli altri, ho sognato con le loro storie, ho ricambiato i sorrisi, ho asciugato le lacrime, permettendo a loro di fare altrettanto con me.
Il mio rapporto con il cibo è ancora particolare: ho bisogno di gustare ciò di cui mi nutro, di sedermi a tavola felice e sorridere fra un boccone e l’altro. Non ricordo mai come si mangia nei vari locali, però so benissimo dove sono stata felice e lì voglio tornare: non mi importa quante stelle ci sono accanto all’insegna, se non brillano nel cielo giusto. Mi piace cucinare a intuito cose semplici, senza seguire ricette complicate, troppo simili a pozioni magiche. Preferisco i “quanto basta”, gli “a piacere”, i “fino a cottura desiderata” ai grammi da pesare e agli ingredienti dai nomi che non so neanche pronunciare. I dolci continuano a sembrarmi un premio che non sempre merito, invece mi ritengo costantemente e sfacciatamente meritevole di mezzo bicchiere di vino e qualche tarallo per accompagnare la mia opera culinaria.
La mia serenità in cucina è il parziale risarcimento per aver perso venti anni della vita a sentirmi sola in mezzo alla gente, tentando di dimagrire per riuscire a toccare, sotto alle costole, il cuore.
Crescere non è facile e non ci si abitua mai a farlo, sebbene sia un processo che inizia dal primo istante della nostra vita e finisce con l’ultimo respiro. A volte non ci piace come si trasforma una parte del nostro corpo -troppo o troppo poco- e tentiamo di modificarla con diete ed esercizio fisico, ma se non siamo soddisfatti di come è cresciuta una parte della nostra anima, se non apprezziamo ciò che siamo diventati, rimediare è più difficile. Digiuno e palestra non serviranno.
Viviamo in una società in cui ci giungono da ogni direzione moniti per dimagrire, al fine di stare meglio con noi stessi e piacerci di più, come se fosse il numero sul display della bilancia la meta da raggiungere per apprezzarsi: 68-59-55-48. Tombola!
Mi guardo allo specchio: continuo a ignorare il mio peso, indosso ancora molti vestiti dei miei vent’anni, ma non mi piace come mi stanno. Non sono più la ragazza che si fasciava dentro un po’ di stoffa colorata e rideva ad alta voce per non sentire i propri pensieri. Non sono più neanche la giovane madre che considerava il figlio come una questione da risolvere. Voglio indossare panni nuovi, quelli di una donna che accetta i propri difetti, ma anche i pregi. Una donna che, quando poggia una mano sul petto per cercarsi il cuore, pensa ai suoi figli: il regalo più grande che la vita le ha fatto e che lei ha fatto alla vita. La partita finisce in parità.
In cuor mio so che qualche chilo in più andrebbe a riempire solchi, distendere grinze e smussare spigoli. Mangio una fetta di crostata che qualcuno ha fatto per me: sono sicura che mi darà energia per affrontare la giornata col sorriso sulle labbra e magari si andrà a depositare nei punti giusti del mio corpo: dove c’è bisogno di morbidezza, dove si atterra negli abbracci, dove si deve stare comodi, dove la stoffa deve appoggiarsi e non cadere giù, a piombo, come in un baratro oscuro.
gRaffa
Raffaella Di Girolamo
bello…
❤️
E capita, talvolta, di non riuscire a vedersi davvero perché lo specchio non è adeguato e noi soffriamo perché continuamo a cercare in esso la nostra immagine.